Raccogliamo e pubblichiamo volentieri una riflessione profonda e strutturata di Maddalena Celano, docente, attivista e studiosa, femminista abolizionista, autrice di diversi articoli e saggi sul tema della lotta alla tratta e alla prostituzione.
A Favore dell’Abolizionismo Femminista contro il movimento prostituente e l’ industria prostituente
Parte II
La distinzione tra lavoro sessuale autonomo e dipendente è una falsa dicotomia, poiché in entrambi i casi le donne rimangono vulnerabili e soggette a sfruttamento. Inoltre, l’agenda della lobby pro-sfruttamento mina gli sforzi delle femministe abolizioniste, infiltrandosi nei movimenti femministi e promuovendo una visione distorta della prostituzione come scelta libera. Prima del 2003, la Nuova Zelanda si trovava in un limbo legale per quanto riguardava la prostituzione: mentre gestire bordelli era illegale, la domanda di sesso a pagamento era legale. Questa ambiguità ha creato un ambiente in cui le donne nel mercato del sesso erano esposte a sfruttamento e violenza, senza alcuna protezione reale. Il Prostitution Reform Act (PRA) del 2003 era visto come una promessa di maggiore autonomia e sicurezza per le donne prostitute. Tuttavia, i risultati dopo più di 15 anni di decriminalizzazione totale raccontano una storia molto diversa.
Il PRA ha trasformato i centri massaggi e le saune in bordelli ufficiali, rendendo legale la gestione di tali luoghi. Tuttavia, anziché garantire maggiore sicurezza alle donne, questo ha aperto la strada a una serie di abusi e sfruttamento. I bordelli ora impongono tariffe sempre più alte alle lavoratrici del sesso, aggiungendo tasse e multe che erodono i loro guadagni. Il sistema del “tutto compreso” li costringe a offrire servizi sessuali più invasivi per meno soldi, senza alcuna voce in capitolo sulle tariffe o sulle prestazioni.
Le donne nella prostituzione, indipendentemente dal contesto in cui lavorano, si trovano a dover affrontare richieste sempre più estreme dei clienti, spesso senza alcun controllo sui propri confini fisici o sessuali. Le violenze subite dai clienti o dai proprietari dei bordelli spesso vanno impunite, poiché la paura di danneggiare il business impedisce alle donne di denunciare tali abusi alla polizia.
Inoltre, la promessa di maggiore autonomia economica e legale per le lavoratrici del sesso è rimasta largamente inattuata. Sebbene il modello neozelandese di decriminalizzazione totale abbia eliminato la criminalizzazione delle prostitute stesse, non ha fornito loro alcun supporto per accedere ai diritti lavorativi e sociali fondamentali. Le lavoratrici del sesso sono considerate libere professioniste, ma senza alcuna delle libertà e delle protezioni tipiche di tale status. Sono soggette a tasse e spese senza poter influenzare le tariffe o le condizioni di lavoro.
Il cosiddetto “New Zealand Prostitutes Collective” offre poco più di un supporto superficiale, senza rappresentare realmente gli interessi delle lavoratrici del sesso o fornire un reale supporto legale o economico.
Inoltre, l’idea che la decriminalizzazione totale avrebbe portato a maggiori entrate fiscali è un mito. La mancanza di regolamentazione fiscale effettiva significa che i profitti derivanti dalla prostituzione non contribuiscono significativamente alle casse dello stato, mentre le lavoratrici del sesso sono ancora gravate da tasse e spese.
La decriminalizzazione totale in Nuova Zelanda non ha fornito la libertà e la sicurezza promesse alle donne nella prostituzione. Al contrario, ha creato un ambiente in cui le lavoratrici del sesso sono più vulnerabili che mai, sottoposte a sfruttamento economico e sessuale senza alcuna protezione reale. Per creare un sistema vero e proprio di autonomia e sicurezza per le donne nel mercato del sesso, è necessario riconsiderare il modello di decriminalizzazione totale e adottare politiche che criminalizzino papponi e clienti e proteggano le lavoratrici del sesso. Nel cuore del mercato del sesso neozelandese risuona una voce singolare: quella del New Zealand Prostitutes Collective (NZPC). Ma dietro questa facciata di rappresentanza femminile si nasconde una realtà distorta, dove le voci delle vere vittime sono soffocate sotto il peso dell’oppressione.
Il NZPC, auto-proclamatosi portavoce delle lavoratrici sessuali, non rappresenta in alcun modo la diversità e la complessità del mercato del sesso. Non esiste alcun requisito di esperienza recente nel campo della prostituzione per farne parte, lasciando così spazio a una leadership distorta e fuorviante. Coloro che guidano questo cosiddetto “collettivo” sono spesso gli stessi che lucrano sulla miseria e la vulnerabilità delle donne, appartenenti a quella rete di sfruttamento notoriamente conosciuta come gli “Ombrelli Rossi” (gruppo presente anche in Italia).
Al momento, il NZPC si batte per l’abolizione della Sezione 19 del Prostitution Reform Act 2003, un movimento che, paradossalmente, porterebbe alla completa decriminalizzazione del traffico di esseri umani a scopo di sfruttamento sessuale in Nuova Zelanda. Ma dietro questa facciata di riforma si cela una realtà oscura: tale abolizione favorirebbe i terzi che traggono profitto dall’oppressione delle donne, a discapito delle vere vittime.
La Sezione 19 attuale, sebbene gravemente difettosa, rappresenta l’unico baluardo contro la schiavitù sessuale. Le donne straniere vengono regolarmente perseguitate e deportate in base a questa legge, senza alcuna considerazione per il fatto che possano essere vittime di traffico umano. Il NZPC e coloro che lo sostengono sembrano ignorare deliberatamente questa realtà, focalizzandosi esclusivamente sull’interesse dei loro stessi guadagni.
La soluzione proposta non è l’abolizione della Sezione 19, ma un approccio completo e compassionevole per proteggere le vere vittime della tratta di esseri umani. Case rifugio sicure, servizi di traduzione, assistenza medica e legale, e percorsi per l’integrazione lavorativa e sociale dovrebbero essere offerti alle vittime, garantendo loro una via d’uscita dalla trappola della schiavitù sessuale.
È giunto il momento di ascoltare veramente le voci delle donne vulnerabili, anziché permettere ai profittatori di manipolare il dibattito pubblico a proprio vantaggio. Il potere maschile prosseneta non può più essere tollerato come scusa per l’oppressione delle donne. È solo attraverso un impegno autentico per la giustizia e l’uguaglianza che possiamo sperare di creare un mondo dove le donne possano godere del rispetto e della dignità che meritano, senza paura di essere ridotte in schiavitù.
L’abolizionismo non significa proibizionismo, ma piuttosto la difesa dei diritti umani delle donne, rifiutando l’idea che la prostituzione possa essere considerata un lavoro come gli altri. La lotta contro lo sfruttamento sessuale richiede un approccio che affronti le radici strutturali della violenza di genere e dell’ingiustizia sociale. La sinistra dovrebbe essere sfidata sul concetto che la prostituzione e il cosiddetto “lavoro sessuale” siano progressisti e liberatori. La mercificazione dei corpi umani, in particolare dei corpi femminili, è un’indicazione dell’aspetto più insidioso del capitalismo, dove tutto diventa oggetto di scambio e la domanda guida l’offerta, reificando e alienando globalmente la persona prostituita.
Esiste un dibattito acceso tra chi, come Elizabeth Nolan Brown, considera la prostituzione semplicemente un lavoro come un altro e chi la vede come un disgustoso sfruttamento dei corpi delle donne e delle ragazze. Mentre Brown sostiene che la prostituzione sia una scelta liberatoria, si ribadisce che è una cultura di misoginia che porta gli uomini a credere che possano comprare il corpo delle donne per il proprio piacere sessuale.
Mentre la sinistra liberale sostiene la decriminalizzazione generale della prostituzione, sto dimostrando come ciò porti a un aumento del commercio sessuale e della violenza contro le donne in paesi come Germania, Australia e Paesi Bassi.
Infine, analizziamo l’impatto socioeconomico della prostituzione sulla società nel suo complesso. Contrariamente alla narrativa diffusa che dipinge la prostituzione come un lavoro come un altro, i dati dimostrano che la maggior parte delle persone coinvolte nella prostituzione vive in condizioni di povertà estrema e ha poche alternative realistiche. Inoltre, la prostituzione alimenta l’economia illegale, connessa a crimine organizzato, traffico di droga e altre attività illegali.
Di fronte a queste evidenze schiaccianti, è chiaro che il femminismo abolizionista è l’ unica alternativa realistica e concreta, fondamentale nella lotta contro la criminale cultura prostituente. Proprio come il movimento abolizionista del XIX secolo ha combattuto contro la schiavitù, il femminismo abolizionista oggi si batte per la dignità, l’uguaglianza e i diritti delle persone coinvolte nella prostituzione.
Per quanto concerne un’ analisi critica delle leggi sulla prostituzione nel Regno Unito, concentrandosi sulle carenze dell’attuale approccio legislativo e esplorando la potenzialità di adottare un nuovo modello, come quello nordico, che criminalizza l’acquisto di sesso ma non la sua vendita. I dati suggeriscono che nel Regno Unito circa 72.800 persone si prostituiscono, di cui circa il 88% sono donne, con una stima di 32.000 prostitute attive a Londra. Sebbene esistano anche prostituti maschi, la maggioranza delle persone coinvolte nel settore sono donne, e quindi il focus dell’analisi si concentra sulla loro sfruttamento. Storicamente, il Regno Unito ha affrontato la prostituzione come un problema di ordine pubblico, mirando a rimuovere la prostituzione dalla vista pubblica criminalizzando le attività ad essa associate. Tuttavia, questo approccio è stato criticato per la sua inefficacia e confusione. Prima dell’introduzione del Sexual Offences Act 2003, il Regno Unito aveva una definizione di prostituzione basata sulla Common Law, che si estendeva oltre l’atto del sesso vaginale e includeva anche atti di “lascivia”. La legislazione successiva ha introdotto una definizione standard di prostituta come una persona che “offre o fornisce servizi sessuali in cambio di pagamento”. Le leggi sullo sfruttamento sessuale nel Regno Unito si sono concentrate sulla riduzione del disturbo pubblico, con l’implementazione di leggi come il Street Offences Act 1959, che proibisce l’ adescamento in luoghi pubblici. La giurisprudenza ha stabilito che anche se una prostituta non si trova direttamente in strada, ma rivolge la sua attenzione ai passanti, ciò costituisce un disturbo pubblico.
In conclusione, il mio articolo suggerisce che, nonostante le diverse legislazioni, la prostituzione continuerà ad esistere indipendentemente dal sistema legislativo adottato. Tuttavia, l’ approccio più efficace (tra i vari metodi adottati, attraverso i secoli) sembrerebbe essere proprio il modello abolizionista e, persino l’ UK, si propone di esaminare il modello nordico, come possibile alternativa, basato sulla criminalizzazione dell’acquisto di sesso, allo scopo di proteggere le persone coinvolte nella prostituzione, in particolare le donne, dall’esposizione a sfruttamento e violenza. Le politiche abolizioniste, come la criminalizzazione dell’acquisto di sesso e l’offerta di alternative concrete e supporto alle persone coinvolte nella prostituzione, sono passi cruciali verso la creazione di una società più giusta e inclusiva per tutti. Gli abolizionisti femministi promuovono con fermezza il “modello svedese” per porre fine alla tratta sessuale e alla prostituzione, comprendendo politiche di assistenza sociale, campagne di sensibilizzazione e riforme giuridiche. Questa visione si basa sul riconoscimento universale che la maggior parte delle vittime della tratta sono donne o ragazze e che la prostituzione perpetua l’ineguaglianza patriarcale.
Contrariamente alle posizioni conservatrici e reazionarie, l’abolizionismo femminista considera la prostituzione come dannosa per le donne e parte integrante della struttura patriarcale, perseguendo quindi l’abolizione del traffico sessuale e della prostituzione.
Gli abolizionisti femministi sostengono la criminalizzazione dell’acquisto di sesso come parte di un approccio completo per fermare il traffico sessuale, basandosi sulla responsabilità dell’acquirente nel contribuire alla tratta e al controllo violento delle persone prostituite. L’argomento del pericolo evidenzia che l’atto di acquistare sesso da una persona costretta o minacciata equivale a infliggere direttamente danni, simili a quelli di uno stupro o di un’aggressione sessuale. Nel tessuto della nostra società, la prostituzione continua a gettare un’ombra oscura sulla dignità e l’autonomia delle donne. Attraverso le voci di attiviste femministe e sopravvissute alla prostituzione, emergono storie di oppressione, sfruttamento e violenza che gridano all’unisono: la prostituzione non è lavoro, ma una manifestazione estrema della violenza patriarcale.
Molte di noi che lottano contro la prostituzione hanno sperimentato direttamente le conseguenze devastanti di questa industria. Spinte dalla precarietà economica e dalla disoccupazione, molte donne si trovano senza alternative, costrette a vendere il proprio corpo per sopravvivere. Tuttavia, questa non è una scelta vera e propria, ma una costrizione inflitta dalla mancanza di opportunità e dalla discriminazione sistemica.
Contrariamente alla retorica del pensiero neoliberista, che cerca di normalizzare la prostituzione come un “lavoro come un altro”, rifiutiamo categoricamente questo concetto. Chi difende la prostituzione non la vivrebbe mai, né la accetterebbe per le proprie figlie o partner (e qui è l’ ipocrisia e la malafede più grande: nessun fautore del movimento prostituente desidera ciò per la propria figliola). Eppure, paradossalmente, questa stessa industria viene proposta come una “possibilità lavorativa” per le donne più vulnerabili, condannandole a subire violenze e abusi fisici ed emotivi.
In paesi come la Germania e la Nuova Zelanda, dove la prostituzione è stata regolamentata o decriminalizzata, le conseguenze nefaste ormai sono evidenti. Le donne costrette alla prostituzione sono considerate merce, soggette al controllo e allo sfruttamento dei papponi d’affari che monopolizzano l’industria del sesso. Le stesse istituzioni che dovrebbero proteggere le donne diventano complici di questa violenza, normalizzando lo sfruttamento sessuale attraverso politiche sbagliate e inadeguate.
L’uso del termine “lavoro sessuale” è fuorviante e offensivo. La prostituzione è un sistema intrinsecamente misogino, che prospera sull’odio verso i corpi e la sessualità delle donne. Le storie di abusi, dipendenza da droghe e alcol, e povertà che emergono dalle testimonianze delle sopravvissute sono un richiamo all’urgenza di agire contro questa forma estrema di violenza di genere.
Sosteniamo fermamente il modello nordico o abolizionista, che si è dimostrato l’ unico veramente efficace nel proteggere i diritti umani delle persone prostituite. Questo modello non solo depenalizza coloro che si trovano nel mercato del sesso (sia ben inteso: prostituirsi NON è un reato per gli abolizionisti), ma offre anche programmi di uscita che garantiscono un’alternativa dignitosa e supporto psico-sanitario gratuito per coloro che desiderano lasciare la prostituzione.
L’associazione AMMAR, ospitata in passato dalla Cgil, deve essere scrutata con occhio critico. Troppo spesso, in Argentina, si sono verificati scandali legati ai loro dirigenti (spesso indagati e processati o messi sotto inchiesta) che hanno apertamente sfruttato e abusato delle donne coinvolte nell’industria del sesso. Questi “incidenti” (tra l’ altro, piuttosto frequenti) rivelano la corruzione e la violenza intrinseche all’industria del sesso, che non può essere ignorata o giustificata.
Mentre alcuni politici suggeriscono di ripristinare le case chiuse e di normalizzare ulteriormente la prostituzione, noi resistiamo. Dobbiamo fermare il progetto di trasformare l’Italia in uno stato pappone, dove le donne sono considerate poco più che oggetti da comprare e vendere.
In questo momento critico, dobbiamo ascoltare le voci delle persone più vulnerabili, che hanno subito le conseguenze devastanti della prostituzione. Solo attraverso la solidarietà e l’azione collettiva possiamo costruire un mondo più giusto, libero dalla violenza maschile sulle donne e dalle catene dell’industria del sesso.
In sintesi, l’abolizionismo femminista combatte la tratta sessuale e la prostituzione come ingranaggi di un sistema patriarcalista (ovvero che emargina ed opprime le donne) dannoso, sostenendo la criminalizzazione dell’acquisto di sesso come parte di un impegno più ampio per garantire un mondo senza sfruttamento e discriminazione.
Esistono, naturalmente, argomenti che possono essere offerti a favore della criminalizzazione dell’acquisto di sesso unicamente per motivi della sua moralità sbagliata, o perché tale condotta causa danni a qualcuno o a qualcos’altro rispetto alle persone prostituite, ma questi non sono gli argomenti in esame qui. Piuttosto, il punto della criminalizzazione dell’acquisto di sesso, secondo l’argomento della complicità e l’argomento del pericolo, è quello di prevenire danni agli altri, specificamente, alle persone prostituite. Basandomi su dati empirici e statistiche, sostengo con fermezza il femminismo abolizionista nella sua lotta contro la cultura prostituente. È giunto il momento di agire con determinazione per proteggere le persone più vulnerabili della nostra società e creare un futuro in cui la dignità e i diritti di tutti siano rispettati e difesi.
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