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Combattere la tratta e la retorica prostituente

Raccogliamo e pubblichiamo volentieri una riflessione profonda e strutturata di Maddalena Celano, docente, attivista e studiosa, femminista abolizionista, autrice di diversi articoli e saggi sul tema della lotta alla tratta e alla prostituzione. 

A Favore dell’Abolizionismo Femminista contro il movimento prostituente e l’ industria prostituente

Parte II

La distinzione tra lavoro sessuale autonomo e dipendente è una falsa dicotomia, poiché in entrambi i casi le donne rimangono vulnerabili e soggette a sfruttamento. Inoltre, l’agenda della lobby pro-sfruttamento mina gli sforzi delle femministe abolizioniste, infiltrandosi nei movimenti femministi e promuovendo una visione distorta della prostituzione come scelta libera. Prima del 2003, la Nuova Zelanda si trovava in un limbo legale per quanto riguardava la prostituzione: mentre gestire bordelli era illegale, la domanda di sesso a pagamento era legale. Questa ambiguità ha creato un ambiente in cui le donne nel mercato del sesso erano esposte a sfruttamento e violenza, senza alcuna protezione reale. Il Prostitution Reform Act (PRA) del 2003 era visto come una promessa di maggiore autonomia e sicurezza per le donne prostitute. Tuttavia, i risultati dopo più di 15 anni di decriminalizzazione totale raccontano una storia molto diversa.

Il PRA ha trasformato i centri massaggi e le saune in bordelli ufficiali, rendendo legale la gestione di tali luoghi. Tuttavia, anziché garantire maggiore sicurezza alle donne, questo ha aperto la strada a una serie di abusi e sfruttamento. I bordelli ora impongono tariffe sempre più alte alle lavoratrici del sesso, aggiungendo tasse e multe che erodono i loro guadagni. Il sistema del “tutto compreso” li costringe a offrire servizi sessuali più invasivi per meno soldi, senza alcuna voce in capitolo sulle tariffe o sulle prestazioni.

Le donne nella prostituzione, indipendentemente dal contesto in cui lavorano, si trovano a dover affrontare richieste sempre più estreme dei clienti, spesso senza alcun controllo sui propri confini fisici o sessuali. Le violenze subite dai clienti o dai proprietari dei bordelli spesso vanno impunite, poiché la paura di danneggiare il business impedisce alle donne di denunciare tali abusi alla polizia.

Inoltre, la promessa di maggiore autonomia economica e legale per le lavoratrici del sesso è rimasta largamente inattuata. Sebbene il modello neozelandese di decriminalizzazione totale abbia eliminato la criminalizzazione delle prostitute stesse, non ha fornito loro alcun supporto per accedere ai diritti lavorativi e sociali fondamentali. Le lavoratrici del sesso sono considerate libere professioniste, ma senza alcuna delle libertà e delle protezioni tipiche di tale status. Sono soggette a tasse e spese senza poter influenzare le tariffe o le condizioni di lavoro.

Il cosiddetto “New Zealand Prostitutes Collective” offre poco più di un supporto superficiale, senza rappresentare realmente gli interessi delle lavoratrici del sesso o fornire un reale supporto legale o economico.

Inoltre, l’idea che la decriminalizzazione totale avrebbe portato a maggiori entrate fiscali è un mito. La mancanza di regolamentazione fiscale effettiva significa che i profitti derivanti dalla prostituzione non contribuiscono significativamente alle casse dello stato, mentre le lavoratrici del sesso sono ancora gravate da tasse e spese.

La decriminalizzazione totale in Nuova Zelanda non ha fornito la libertà e la sicurezza promesse alle donne nella prostituzione. Al contrario, ha creato un ambiente in cui le lavoratrici del sesso sono più vulnerabili che mai, sottoposte a sfruttamento economico e sessuale senza alcuna protezione reale. Per creare un sistema vero e proprio di autonomia e sicurezza per le donne nel mercato del sesso, è necessario riconsiderare il modello di decriminalizzazione totale e adottare politiche che criminalizzino papponi e clienti e proteggano le lavoratrici del sesso. Nel cuore del mercato del sesso neozelandese risuona una voce singolare: quella del New Zealand Prostitutes Collective (NZPC). Ma dietro questa facciata di rappresentanza femminile si nasconde una realtà distorta, dove le voci delle vere vittime sono soffocate sotto il peso dell’oppressione.

Il NZPC, auto-proclamatosi portavoce delle lavoratrici sessuali, non rappresenta in alcun modo la diversità e la complessità del mercato del sesso. Non esiste alcun requisito di esperienza recente nel campo della prostituzione per farne parte, lasciando così spazio a una leadership distorta e fuorviante. Coloro che guidano questo cosiddetto “collettivo” sono spesso gli stessi che lucrano sulla miseria e la vulnerabilità delle donne, appartenenti a quella rete di sfruttamento notoriamente conosciuta come gli “Ombrelli Rossi” (gruppo presente anche in Italia).

Al momento, il NZPC si batte per l’abolizione della Sezione 19 del Prostitution Reform Act 2003, un movimento che, paradossalmente, porterebbe alla completa decriminalizzazione del traffico di esseri umani a scopo di sfruttamento sessuale in Nuova Zelanda. Ma dietro questa facciata di riforma si cela una realtà oscura: tale abolizione favorirebbe i terzi che traggono profitto dall’oppressione delle donne, a discapito delle vere vittime.

La Sezione 19 attuale, sebbene gravemente difettosa, rappresenta l’unico baluardo contro la schiavitù sessuale. Le donne straniere vengono regolarmente perseguitate e deportate in base a questa legge, senza alcuna considerazione per il fatto che possano essere vittime di traffico umano. Il NZPC e coloro che lo sostengono sembrano ignorare deliberatamente questa realtà, focalizzandosi esclusivamente sull’interesse dei loro stessi guadagni.

La soluzione proposta non è l’abolizione della Sezione 19, ma un approccio completo e compassionevole per proteggere le vere vittime della tratta di esseri umani. Case rifugio sicure, servizi di traduzione, assistenza medica e legale, e percorsi per l’integrazione lavorativa e sociale dovrebbero essere offerti alle vittime, garantendo loro una via d’uscita dalla trappola della schiavitù sessuale.

È giunto il momento di ascoltare veramente le voci delle donne vulnerabili, anziché permettere ai profittatori di manipolare il dibattito pubblico a proprio vantaggio. Il potere maschile prosseneta non può più essere tollerato come scusa per l’oppressione delle donne. È solo attraverso un impegno autentico per la giustizia e l’uguaglianza che possiamo sperare di creare un mondo dove le donne possano godere del rispetto e della dignità che meritano, senza paura di essere ridotte in schiavitù.

L’abolizionismo non significa proibizionismo, ma piuttosto la difesa dei diritti umani delle donne, rifiutando l’idea che la prostituzione possa essere considerata un lavoro come gli altri. La lotta contro lo sfruttamento sessuale richiede un approccio che affronti le radici strutturali della violenza di genere e dell’ingiustizia sociale. La sinistra dovrebbe essere sfidata sul concetto che la prostituzione e il cosiddetto “lavoro sessuale” siano progressisti e liberatori. La mercificazione dei corpi umani, in particolare dei corpi femminili, è un’indicazione dell’aspetto più insidioso del capitalismo, dove tutto diventa oggetto di scambio e la domanda guida l’offerta, reificando e alienando globalmente la persona prostituita.

Esiste un dibattito acceso tra chi, come Elizabeth Nolan Brown, considera la prostituzione semplicemente un lavoro come un altro e chi la vede come un disgustoso sfruttamento dei corpi delle donne e delle ragazze. Mentre Brown sostiene che la prostituzione sia una scelta liberatoria, si ribadisce che è una cultura di misoginia che porta gli uomini a credere che possano comprare il corpo delle donne per il proprio piacere sessuale.

Mentre la sinistra liberale sostiene la decriminalizzazione generale della prostituzione, sto dimostrando come ciò porti a un aumento del commercio sessuale e della violenza contro le donne in paesi come Germania, Australia e Paesi Bassi.

Infine, analizziamo l’impatto socioeconomico della prostituzione sulla società nel suo complesso. Contrariamente alla narrativa diffusa che dipinge la prostituzione come un lavoro come un altro, i dati dimostrano che la maggior parte delle persone coinvolte nella prostituzione vive in condizioni di povertà estrema e ha poche alternative realistiche. Inoltre, la prostituzione alimenta l’economia illegale, connessa a crimine organizzato, traffico di droga e altre attività illegali.

Di fronte a queste evidenze schiaccianti, è chiaro che il femminismo abolizionista è l’ unica alternativa realistica e concreta, fondamentale nella lotta contro la criminale cultura prostituente. Proprio come il movimento abolizionista del XIX secolo ha combattuto contro la schiavitù, il femminismo abolizionista oggi si batte per la dignità, l’uguaglianza e i diritti delle persone coinvolte nella prostituzione.

Per quanto concerne un’ analisi critica delle leggi sulla prostituzione nel Regno Unito, concentrandosi sulle carenze dell’attuale approccio legislativo e esplorando la potenzialità di adottare un nuovo modello, come quello nordico, che criminalizza l’acquisto di sesso ma non la sua vendita. I dati suggeriscono che nel Regno Unito circa 72.800 persone si prostituiscono, di cui circa il 88% sono donne, con una stima di 32.000 prostitute attive a Londra. Sebbene esistano anche prostituti maschi, la maggioranza delle persone coinvolte nel settore sono donne, e quindi il focus dell’analisi si concentra sulla loro sfruttamento. Storicamente, il Regno Unito ha affrontato la prostituzione come un problema di ordine pubblico, mirando a rimuovere la prostituzione dalla vista pubblica criminalizzando le attività ad essa associate. Tuttavia, questo approccio è stato criticato per la sua inefficacia e confusione. Prima dell’introduzione del Sexual Offences Act 2003, il Regno Unito aveva una definizione di prostituzione basata sulla Common Law, che si estendeva oltre l’atto del sesso vaginale e includeva anche atti di “lascivia”. La legislazione successiva ha introdotto una definizione standard di prostituta come una persona che “offre o fornisce servizi sessuali in cambio di pagamento”. Le leggi sullo sfruttamento sessuale nel Regno Unito si sono concentrate sulla riduzione del disturbo pubblico, con l’implementazione di leggi come il Street Offences Act 1959, che proibisce l’ adescamento in luoghi pubblici. La giurisprudenza ha stabilito che anche se una prostituta non si trova direttamente in strada, ma rivolge la sua attenzione ai passanti, ciò costituisce un disturbo pubblico.

In conclusione, il mio articolo suggerisce che, nonostante le diverse legislazioni, la prostituzione continuerà ad esistere indipendentemente dal sistema legislativo adottato. Tuttavia, l’ approccio più efficace (tra i vari metodi adottati, attraverso i secoli) sembrerebbe essere proprio il modello abolizionista e, persino l’ UK, si propone di esaminare il modello nordico, come possibile alternativa, basato sulla criminalizzazione dell’acquisto di sesso, allo scopo di proteggere le persone coinvolte nella prostituzione, in particolare le donne, dall’esposizione a sfruttamento e violenza. Le politiche abolizioniste, come la criminalizzazione dell’acquisto di sesso e l’offerta di alternative concrete e supporto alle persone coinvolte nella prostituzione, sono passi cruciali verso la creazione di una società più giusta e inclusiva per tutti. Gli abolizionisti femministi promuovono con fermezza il “modello svedese” per porre fine alla tratta sessuale e alla prostituzione, comprendendo politiche di assistenza sociale, campagne di sensibilizzazione e riforme giuridiche. Questa visione si basa sul riconoscimento universale che la maggior parte delle vittime della tratta sono donne o ragazze e che la prostituzione perpetua l’ineguaglianza patriarcale.

Contrariamente alle posizioni conservatrici e reazionarie, l’abolizionismo femminista considera la prostituzione come dannosa per le donne e parte integrante della struttura patriarcale, perseguendo quindi l’abolizione del traffico sessuale e della prostituzione.

Gli abolizionisti femministi sostengono la criminalizzazione dell’acquisto di sesso come parte di un approccio completo per fermare il traffico sessuale, basandosi sulla responsabilità dell’acquirente nel contribuire alla tratta e al controllo violento delle persone prostituite. L’argomento del pericolo evidenzia che l’atto di acquistare sesso da una persona costretta o minacciata equivale a infliggere direttamente danni, simili a quelli di uno stupro o di un’aggressione sessuale. Nel tessuto della nostra società, la prostituzione continua a gettare un’ombra oscura sulla dignità e l’autonomia delle donne. Attraverso le voci di attiviste femministe e sopravvissute alla prostituzione, emergono storie di oppressione, sfruttamento e violenza che gridano all’unisono: la prostituzione non è lavoro, ma una manifestazione estrema della violenza patriarcale.

Molte di noi che lottano contro la prostituzione hanno sperimentato direttamente le conseguenze devastanti di questa industria. Spinte dalla precarietà economica e dalla disoccupazione, molte donne si trovano senza alternative, costrette a vendere il proprio corpo per sopravvivere. Tuttavia, questa non è una scelta vera e propria, ma una costrizione inflitta dalla mancanza di opportunità e dalla discriminazione sistemica.

Contrariamente alla retorica del pensiero neoliberista, che cerca di normalizzare la prostituzione come un “lavoro come un altro”, rifiutiamo categoricamente questo concetto. Chi difende la prostituzione non la vivrebbe mai, né la accetterebbe per le proprie figlie o partner (e qui è l’ ipocrisia e la malafede più grande: nessun fautore del movimento prostituente desidera ciò per la propria figliola). Eppure, paradossalmente, questa stessa industria viene proposta come una “possibilità lavorativa” per le donne più vulnerabili, condannandole a subire violenze e abusi fisici ed emotivi.

In paesi come la Germania e la Nuova Zelanda, dove la prostituzione è stata regolamentata o decriminalizzata, le conseguenze nefaste ormai sono evidenti. Le donne costrette alla prostituzione sono considerate merce, soggette al controllo e allo sfruttamento dei papponi d’affari che monopolizzano l’industria del sesso. Le stesse istituzioni che dovrebbero proteggere le donne diventano complici di questa violenza, normalizzando lo sfruttamento sessuale attraverso politiche sbagliate e inadeguate.

L’uso del termine “lavoro sessuale” è fuorviante e offensivo. La prostituzione è un sistema intrinsecamente misogino, che prospera sull’odio verso i corpi e la sessualità delle donne. Le storie di abusi, dipendenza da droghe e alcol, e povertà che emergono dalle testimonianze delle sopravvissute sono un richiamo all’urgenza di agire contro questa forma estrema di violenza di genere.

Sosteniamo fermamente il modello nordico o abolizionista, che si è dimostrato l’ unico veramente efficace nel proteggere i diritti umani delle persone prostituite. Questo modello non solo depenalizza coloro che si trovano nel mercato del sesso (sia ben inteso: prostituirsi NON è un reato per gli abolizionisti), ma offre anche programmi di uscita che garantiscono un’alternativa dignitosa e supporto psico-sanitario gratuito per coloro che desiderano lasciare la prostituzione.

L’associazione AMMAR, ospitata in passato dalla Cgil, deve essere scrutata con occhio critico. Troppo spesso, in Argentina, si sono verificati scandali legati ai loro dirigenti (spesso indagati e processati o messi sotto inchiesta) che hanno apertamente sfruttato e abusato delle donne coinvolte nell’industria del sesso. Questi “incidenti” (tra l’ altro, piuttosto frequenti) rivelano la corruzione e la violenza intrinseche all’industria del sesso, che non può essere ignorata o giustificata.

Mentre alcuni politici suggeriscono di ripristinare le case chiuse e di normalizzare ulteriormente la prostituzione, noi resistiamo. Dobbiamo fermare il progetto di trasformare l’Italia in uno stato pappone, dove le donne sono considerate poco più che oggetti da comprare e vendere.

In questo momento critico, dobbiamo ascoltare le voci delle persone più vulnerabili, che hanno subito le conseguenze devastanti della prostituzione. Solo attraverso la solidarietà e l’azione collettiva possiamo costruire un mondo più giusto, libero dalla violenza maschile sulle donne e dalle catene dell’industria del sesso.

In sintesi, l’abolizionismo femminista combatte la tratta sessuale e la prostituzione come ingranaggi di un sistema patriarcalista (ovvero che emargina ed opprime le donne) dannoso, sostenendo la criminalizzazione dell’acquisto di sesso come parte di un impegno più ampio per garantire un mondo senza sfruttamento e discriminazione.

Esistono, naturalmente, argomenti che possono essere offerti a favore della criminalizzazione dell’acquisto di sesso unicamente per motivi della sua moralità sbagliata, o perché tale condotta causa danni a qualcuno o a qualcos’altro rispetto alle persone prostituite, ma questi non sono gli argomenti in esame qui. Piuttosto, il punto della criminalizzazione dell’acquisto di sesso, secondo l’argomento della complicità e l’argomento del pericolo, è quello di prevenire danni agli altri, specificamente, alle persone prostituite. Basandomi su dati empirici e statistiche, sostengo con fermezza il femminismo abolizionista nella sua lotta contro la cultura prostituente. È giunto il momento di agire con determinazione per proteggere le persone più vulnerabili della nostra società e creare un futuro in cui la dignità e i diritti di tutti siano rispettati e difesi.

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Combattere la tratta e la retorica prostituente

Raccogliamo e pubblichiamo volentieri una riflessione profonda e strutturata di Maddalena Celano, docente, attivista e studiosa, femminista abolizionista, autrice di diversi articoli e saggi sul tema della lotta alla tratta e alla prostituzione. 

A Favore dell’Abolizionismo Femminista contro il movimento prostituente e l’ industria prostituente

Parte I

Quando si parla di tratta, è importante considerare le reali implicazioni di questa pratica e le cifre impressionanti che riguardano la violenza e lo sfruttamento delle persone coinvolte. Prima di tutto, i dati raccolti in diversi paesi del mondo evidenziano una realtà estremamente inquietante: la netta e stragrande maggioranza delle persone coinvolte nella prostituzione subisce violenza fisica e sessuale, spesso perpetrata proprio dai clienti o/e dai gestori dei bordelli e, sempre più spesso, si tratta proprio dei bordelli reclamizzati e legalizzati per via delle pressioni “sexworkiste” del movimento prostituente. Studi condotti dalle Nazioni Unite hanno rilevato che, in alcuni paesi europei, fino al 99% delle persone coinvolte nella prostituzione ha subito violenza, anche e soprattutto all’ interno dei postriboli legalizzati. Questi dati sono indicativi della natura intrinsecamente violenta della cultura prostituente e sottolineano l’urgente necessità di proteggere le persone coinvolte da tali abusi. In secondo luogo, è fondamentale considerare le conseguenze devastanti che la prostituzione porta sulle persone coinvolte, in particolare sulle donne e sui giovani. L’Europa si trova di fronte a una cruda realtà: tra le sue strade si aggirano tra 70.000 e 140.000 individui, vittime di traffico umano, con l’84% di essi destinati allo sfruttamento sessuale. Questa è una vergogna che non può essere ignorata né tollerata. È un’ingiustizia profonda che grida vendetta contro un sistema che permette all’industria della prostituzione di prosperare, alimentando i desideri dei clienti a spese delle vite e della dignità delle donne.

Non possiamo più accettare il dogma della liberalizzazione, che in molti Paesi europei ha aperto le porte all’orrore anziché chiuderle. Il Consiglio d’Europa ha chiaramente indicato la via giusta nel 2014, quando ha invitato tutti i suoi membri ad abbracciare l’abolizionismo. Questo non è solo un invito, ma un dovere morale, una chiamata all’azione per smantellare le strutture che alimentano questa forma moderna di schiavitù. Dobbiamo guardare alla Germania, che ha legalizzato la prostituzione più di vent’anni fa sperando di proteggere le donne. Ma cosa ha ottenuto? Soltanto una proliferazione della criminalità organizzata, con le donne ridotte a merce e gli sfruttatori normalizzati come normali “datori di lavoro” e normali “imprenditori” (molti di loro sono legati alla ndrangheta italiana: è stata proprio la mafia calabrese ad acquistare i quartieri a luci rosse ed ora è essa stessa a gestirli). La giornalista britannica Julie Bindel, con la sua indagine esaustiva sulla prostituzione, ha rivelato la brutale realtà dietro l’apparenza di normalità. Le donne coinvolte sono spesso vittime di violenze, costrette a subire rapporti non desiderati e a sopportare anni di abusi fisici e psicologici.

Non possiamo voltare le spalle a queste donne, né alzare le mani in segno di resa di fronte a un sistema che le sfrutta senza pietà. La prostituzione non è una scelta libera, bensì un riflesso dei fallimenti della nostra società nel proteggere i suoi membri più vulnerabili. Non possiamo chiamarla lavoro, non possiamo accettare che il corpo umano sia trattato come una merce da vendere al miglior offerente. Infatti, Rachel Moran, ex vittima della prostituzione “volontaria” (ex escort di lusso) rispose, durante un’ intervista, ad un membro del movimento prostituente che paragonava la prostituzione all’ esercizio dell’ attività di cameriera al McDonald’s: la cameriera del McDonald’s vende l’ hamburger, nel caso della prostituzione, invece, tu sei l’ hamburger.

L’Italia, con la sua Corte Costituzionale, ha posto un faro sulla strada da seguire, affermando chiaramente che la prostituzione non può essere considerata lavoro. È un’attività che degrada la dignità umana e alimenta un mercato basato sull’oppressione e lo sfruttamento. Non possiamo permettere che milioni di clienti alimentino questo ciclo di violenza e miseria, mentre la criminalità organizzata fa incetta di profitti proprio grazie ai movimenti prostituenti e alle loro pressioni ideologiche e politiche su partiti e media popolari.

Dobbiamo essere chiari nel nostro messaggio: la libertà sessuale non può esistere senza il rispetto del consenso e della dignità umana. L’acquisto di sesso non desiderato non è libertà, ma oppressione; non è piacere, ma violenza. Il famigerato “consenso” all’ atto sessuale non può essere acquistato con il denaro giacché il desiderio sessuale c’è o non c’è. In caso contrario, si tratta di “mero stupro monetario” a cui, sia ben inteso, una vittima può cedere e tollerare (per mera necessità). Dobbiamo smettere di nasconderci dietro l’illusione che la legalizzazione possa risolvere il problema dello stigma sociale. Come ha sottolineato la filosofa Luisa Muraro, non sarà certamente una legge a cancellare l’oppressione.

Per concludere, dobbiamo chiederci: cosa c’è di progressista nel perpetuare un sistema che sfrutta e degrada le donne? È tempo di alzare la voce e combattere per un mondo in cui ogni individuo sia libero dalla schiavitù e dallo sfruttamento. È tempo di abolire la prostituzione. Le ricerche dimostrano che coloro che si trovano coinvolti nella prostituzione hanno maggiori probabilità di sviluppare problemi di salute mentale, dipendenze da sostanze e di essere vittime di traffico umano. Inoltre, molte donne coinvolte nella prostituzione sono madri single che lottano per sostenere sé stesse e le proprie famiglie, spesso senza accesso a servizi sociali o assistenza sanitaria adeguata. Di fronte a queste evidenze, l’approccio abolizionista alla prostituzione si presenta come unica risposta necessaria e urgente. L’abolizione della prostituzione non solo proteggerebbe le persone coinvolte dalla violenza e dallo sfruttamento, ma è l’ unica prospettiva che offrirebbe loro opportunità di uscire da situazioni di precarietà e vulnerabilità, garantendo loro accesso a servizi di sostegno e alternative lavorative più sicure e dignitose.

In conclusione, mentre alcuni possono tentare di normalizzare la prostituzione come lavoro, è importante riconoscere la sua intrinseca violenza e le sue devastanti conseguenze su tutte le persone coinvolte. L’abolizionismo rappresenta una risposta etica e compassionevole a questa realtà, promuovendo la protezione e il benessere delle persone coinvolte; anziché il loro sfruttamento e la loro oppressione. Negli ultimi decenni, il movimento femminista abolizionista ha sollevato con forza la sua voce contro la cultura prostituente, sottolineando i danni inflitti alle donne coinvolte e la necessità di adottare misure decisive nel contrastarla. Basandoci su dati e statistiche empiriche, è evidente che l’abolizionismo femminista non solo è giustificato, ma è anche l’ imperativo morale e sociale in grado di contrastare seriamente questa piaga. Prima di tutto, bisogna sempre tener presente le cifre impressionanti riguardanti la violenza e lo sfruttamento delle persone coinvolte nella prostituzione.

È facile non notare i danni della prostituzione se non li guardiamo direttamente. La maggior parte delle persone che non sono direttamente coinvolte nell’industria del sesso hanno una conoscenza limitata di ciò che accade al suo interno. Dobbiamo chiederci onestamente quali sono le implicazioni della normalizzazione della prostituzione. Non è accettabile dire semplicemente: “Non ne sono influenzato personalmente e ci sono cose più importanti su cui concentrarci”. Quando scopriamo gravi violazioni dei diritti umani, come nel caso della prostituzione, è nostra responsabilità fare qualcosa al riguardo. Se diamo uno sguardo onesto alla situazione della Germania, è chiaro che la realtà ha decisamente oltrepassato quelli che potevano essere le buone intenzioni della legalizzazione della prostituzione.

Il Bundestag (il Parlamento tedesco) ha approvato nel 2001 la legge sulla prostituzione, grazie ai voti dei socialdemocratici e dei verdi, allora al Governo in una coalizione guidata dal cancelliere Gerhard Schröder. La misura sulla regolamentazione del sesso a pagamento entrò in vigore il 1° gennaio 2002 (proprio lo stesso giorno dell’Euro). Nei loro sforzi per screditare il modello nordico (modello abolizionista tra i più intransigenti), gli oppositori affermano che in Svezia la prostituzione non è in realtà diminuita, ma invece è diventata “clandestina”. Questo, ovviamente, non è vero. Le forze dell’ordine e gli assistenti sociali in Svezia, dove il modello nordico è in atto da oltre un decennio, affermano di non avere problemi a scovare reti di prostituzione e clienti; l’unico problema è trovare le risorse per affrontare queste situazioni.” (fonte: Redazione Documentazione.info)

La legalizzazione della prostituzione non è riuscita a fermare il traffico di esseri umani e ora molti Paesi, tra cui l’Italia, puntano al “modello nordico”, un insieme di norme promosso dall’Unione europea già nel 2004, quando aveva evidenziato il fallimento del modello regolamentarista.

Nel corso degli anni, sempre più segnali hanno sancito la necessità di un cambiamento di rotta: nel 2007 lo studio “Daalder” ha spinto il Governo olandese al graduale smantellamento dei quartieri a luci rosse creati nel 2000, anno in cui era stato abolito il divieto sulle “case chiuse”. Più recentemente, una lettera di un’ex prostituta tedesca ha portato alla luce le crepe strutturali della decisione della Germania di legalizzare la prostituzione. Attualmente, i dati più aggiornati risalgono al Rapporto Eurostat del 2015 e confermano quelli del rapporto precedente: i Paesi che hanno deciso di legalizzare la prostituzione non hanno registrato alcun calo dei casi di sfruttamento (se mai solo un repentino aumento dello stesso).

Ma il traffico di esseri umani non riguarda solo l’Europa: esso è un fenomeno globale che coinvolge 42 milioni di persone e con 186 miliardi di dollari l’anno rappresenta una delle principali miniere d’oro per la criminalità organizzata. La sua portata è talmente estesa da far sì che l’UE nella sua ultima proposta di risoluzione, parli esplicitamente di violazione di diritti umani. È quindi naturale che sia influenzato dalle diverse politiche legislative messe in atto dai Governi. Appare dunque fondamentale l’adozione di una normativa comune e la creazione di “banche dati centralizzate”, in grado di fornire informazioni attendibili sullo sviluppo del fenomeno. Tutto questo ha spinto Paesi come la Francia, l’Inghilterra ma anche Stati non europei come il Canada a ripensare le proprie politiche nazionali in merito al traffico di esseri umani. Il “modello nordico”, perché vigente nei Paesi del Nord Europa (Svezia, Norvegia, Islanda e Irlanda del Nord) è rivoluzionario: esso prevede delle sanzioni nei confronti dei clienti dell’industria sessuale e dove applicato, ha prodotto una flessione dei casi di sfruttamento. Tra i Paesi che stanno riconsiderando la propria posizione vi è anche l’Italia, dove a novembre del 2016 è stato presentato un disegno di legge per l’entrata in vigore del modello nordico nel nostro Paese” (fonte Redazione: Documentazione.info). La dottoressa tedesca Ingeborg Kraus, psico-traumatologa di fama internazionale, attiva nella Società Tedesca sul Trauma e la Dissociazione e la Società Europea per la sindrome da stress post traumatico, ha pubblicato numerosi articoli in particolare sulla sindrome da stress post-traumatico, il trauma bonding e sul trauma come fattore d’ingresso nella prostituzione e tiene conferenze su questo tema in vari paesi mondiali. In seguito all’indifferenza dimostrata dalla comunità internazionale, durante la Guerra nell’ex Jugoslavia, non ha voluto restare inerte e ha deciso invece di rendersi utile. È stata impegnata sul fronte umanitario dal 1994 fino al 2003 in Bosnia e nel Kosovo. Una volta rientrata in Germania ha lavorato in varie cliniche di salute mentale specializzate in psicosomatica e dipendenze. Dal 2012 ha aperto uno studio di counselling psicoterapeutico a Karlsruhe. Ha curato più di 1000 donne, tra queste, molte vittime di prostituzione. Nel 2007 ha co-fondato un gruppo all’interno del partito dei Verdi contro la prostituzione (Grüne Prostitutionskritikerinnen). Nel 2013 ha iniziato una massiccia campagna per mettere fine alla prostituzione in Germania inclusa una petizione rivolta a tutti i partiti politici che ha avuto successo. Nel 2014 ha esteso la sua battaglia per la causa all’ambito medico. Grazie al suo impegno la Dott.ssa Kraus ha creato una rete di scienziati e esperti nell’ambito medico (https://www.trauma-and-prostitution.eu/en/the-appeal/) che hanno unito i loro sforzi producendo ricerche, pubblicando e facendo formazione sulla dura realtà della prostituzione e le conseguenze sulla salute delle persone e della società. Ha tenuto lezioni e corsi su questo tema a livello mondiale, è intervenuta in diversi parlamenti più volte, dall’Assemblée Nationale di Parigi, a l’ENA di Strasburgo, alla Camera dei Deputati e del Senato a Roma, al Palaco de Cibeles a Madrid, al CSW di New York e nel Parlamento Tedesco. La maggioranza delle persone che si rivolgono a lei sono donne. Il tema del “trauma-bonding” è pane quotidiano nel suo approccio terapeutico, affligge le donne di qualsiasi provenienza e classe sociale. Nel 2009 ha scritto il suo primo articolo sulla sua esperienza clinica con le donne in prostituzione nel quale ha spiegato la connessione tra un trauma precedente e l’ingresso nella prostituzione. Questo perché: un’autostima compromessa favorisce l’entrata. Anche gli Stati che considerano la prostituzione un lavoro come un altro rispecchiano nelle loro strutture sociali l’ideologia del perpetratore e creano un trauma bonding collettivo. L’attivista per i diritti delle donne scomparsa di recente, Nawal al-Saadawi, ha giustamente affermato che la liberazione delle donne deve avvenire anche a livello psicologico. Perché quando le donne si liberano a livello mentale dai loro oppressori questi non hanno più alcun potere su di loro. La lobby pro-sfruttamento, incarnata da organizzazioni come AMMAR e Retrasex, promuove attivamente la prostituzione come lavoro, influenzando l’opinione pubblica e i media.

La Spagna, in particolare, è diventata un nodo cruciale per il turismo sessuale globale, con l’apertura di sedi di fondazioni come quella di George Soros, che sostengono la legalizzazione della prostituzione a livello mondiale. Questa lobby opera attraverso sindacati falsi e organizzazioni che difendono la prostituzione come scelta autonoma, ignorando le reali dinamiche di sfruttamento e tratta. Retrasex, ad esempio, manipola il concetto di tratta, definendo vittime solo coloro che rispondono a uno specifico stereotipo, escludendo molte altre forme di sfruttamento. Le donne vengono forzate a firmare contratti che affermano di esercitare la prostituzione in modo autonomo, nascondendo così lo sfruttamento e rendendo difficile per le autorità intervenire.

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