Sabato 24 giugno, a Bergamo, la libreria Incrocio Quarenghi ha ospitato la presentazione del libro Libertà in vendita – Il corpo fra scelta e mercato, di Valentina Pazé. Docente universitaria di Filosofia politica, Valentina ha dialogato con Chiara Parolin, avvocata, esperta in Diritto di famiglia e migrazione e co-presidente del Network europeo ENOMW, e Nica Mammì, giornalista e docente, referente dell’Associazione IROKO. 

Prostituzione, maternità surrogata e uso del velo sono i grandi temi attorno a cui ruotano le riflessioni dell’autrice, in relazione all’espressione della libertà e all’uso del corpo delle donne. 

I corpi, in particolare quelli delle donne, continuano ad essere territori contesi, frontiere politiche, continuamente soggetti a limitazioni legislative e culturali, ma soprattutto alle leggi del mercato, dove per libertà si intende unicamente quella individuale, da preservare a tutti i costi, anche quando entra in contrasto con l’utilità collettiva.
Da una parte si celebra la libertà come valore supremo, eppure dall’altra si tende alla mercificazione del corpo. 

Quale libertà, dunque, sui corpi delle donne?

Pazé prova a sciogliere questo nodo proprio partendo dal tema della prostituzione, questione controversa e a noi molto cara: le donne sono libere di vendersi? Perché sono in prevalenza le donne a vendere il proprio corpo nella prostituzione [si stima che tra 40-42 milioni di persone nel mondo siano coinvolte nella prostituzione e che di queste circa l’80% siano donne].

Prostituzione: necessità o scelta? ‘Una scelta è autentica solo se consapevole’: Pazé cita le parole di Rachel Moran in Stupro a pagamento, spiegando che la consapevolezza è dettata dalle condizioni di partenza. Ma soprattutto sottolinea l’antitesi tra prostituzione e libertà. Se, infatti, la libertà è determinata dall’inviolabilità del proprio corpo, nella prostituzione è proprio questa condizione a mancare, poiché essa è una continua violazione del corpo, resa possibile proprio dal prezzo come valore dato alla prestazione. 

Pazé, riprendendo Silvia Bonino in Amori molesti, sottolinea come una delle chiavi di analisi sia proprio la natura impersonale insita nella sessualità a pagamento, priva di coinvolgimento emotivo. 

Chi, come i sostenitori del sex work, vede nella prostituzione la libertà, in realtà sta rivendicando la liberazione della prostituzione dai vincoli che la condizionano in molti paesi.

Non è, dunque, tanto la dissociazione tra sesso e sentimenti ciò su cui riflettere – considerato che questa condizione appartiene anche ad altri tipi di rapporto; ma alla condizione di una sessualità anonima e primitiva, dove l’obiettivo è la soddisfazione sessuale del cliente, maschio.

Nell’epoca del neoliberismo, dove tutto, anche i diritti fondamentali, sono preda del mercato, anche il corpo è diventato merce e la libertà sessuale acquisisce un valore di mercato: è la libertà di disporre, sì del proprio corpo, ma è una libertà che inevitabilmente assume un prezzo.

Ma la libertà, come il corpo, possono essere soggetti a transazioni economiche? Come si stabilisce il prezzo e chi è titolato a farlo?

Forse, si domanda Valentina – e ce lo chiediamo anche noi – possiamo, anzi dobbiamo, porre un limite a ciò che il denaro può comprare.

Interessante, a questo proposito, la riflessione tratta da Libertà sessuale e politiche sulla prostituzione di Daniela Danna, che chiarisce che il sesso non può diventare merce, in quanto non è un oggetto staccabile dal corpo, a meno di attuare una dissociazione tra mente e corpo.

Valentina smonta anche la tesi del sex work come lavoro di cura: nella prostituzione non è il benessere fisico ad essere soddisfatto, ma il piacere, e la capacità decisionale della prostituta è limitata dal prezzo pattuito. 

Dal punto di vista giuridico, la prostituzione in Italia non è vietata, ma non è riconosciuta tra i diritti fondamentali della persona. Questa è la differenza che, a parere di Pazé, intercorre tra la libertà di fatto – assenza di un divieto, in cui possiamo inquadrare la prostituzione- e quella di diritto.

La sentenza 141/2019 della Corte Costituzionale ha infatti ribadito la legittimità dell’art. 3 della Legge Merlin, riguardo al reclutamento e favoreggiamento della prostituzione, messi in discussione dalla Corte di Appello di Bari in merito al caso del procacciamento delle escort (la cosiddetta prostituzione volontaria) a favore di Silvio Berlusconi.

Per approfondimenti si legga qui.

Libere di vendersi, e anche di donarsi? Così Valentina introduce il tema della maternità surrogata, o gestazione per altri (GPA), sulla cui dicitura l’autrice non concorda, poiché tende ad una graduale scomparsa della figura della madre, colei che partorisce, proprio a partire dal linguaggio. L’India ne è un esempio: qui, a partire dagli anni Duemila, grazie ad un mercato altamente concorrenziale, sono sorte cliniche che ospitano donne potenziali surrogate, formate a percepirsi come uteri. Insomma, una sorta di dissociazione tra donna e utero.
La donna è spesso accostata al concetto di altruismo. La cosiddetta maternità surrogata “solidale” deriva forse da questa idea che la donna si prende cura del prossimo?, si chiede Chiara Parolin. Il concetto di dono, spiega Valentina, sembra la soluzione alternativa della maternità surrogata contrattualizzata. Ma è proprio il contratto a limitare la surrogata alle regole del mercato, mentre il dono – seppure sottenda un controdono necessario alla relazione di fiducia – è caratterizzato proprio dall’assenza di costrizione. 

Il principio proprio del nostro ordinamento giuridico mater semper certa est permette già di prendere accordi informali su chi si prenda cura del neonato, nel momento in cui la madre naturale non lo riconosca. Una forma di maternità solidale, perciò, esiste già. Legalizzare queste condizioni significa vietare alla donna la libertà di autodeterminarsi. Senza contare che una spinta forte alle surrogate è data da ragioni economiche, e non a caso la GPA è diffusa soprattutto in paesi poveri.

Il divieto di istituire un mercato legale della surrogata, in sostanza, protegge le donne più vulnerabili dalla tentazione di vendere parti del proprio corpo per sopravvivere.

Libertà quale diritto inalienabile e indisponibile, come ci ricordano i filosofi Locke e Kant, principio che per primo, a partire dal Settecento, entra in contrasto con la giustificazione della schiavitù.

Accanto alla libertà Valentina colloca due altri valori, uguaglianza e fratellanza, le sorelle rivoluzionarie dimenticate, messe da parte. La schiavitù volontaria non esiste, se non in condizioni di estrema povertà. Allora forse bisogna ricominciare ad occuparsi della tutela dei soggetti deboli, per impegnarsi davvero a garantire l’uguaglianza tra le persone.

Per approfondire: