Resistenza e donna.
In Italia il connubio tra queste due parole si è rafforzato negli ultimi anni della Seconda Guerra Mondiale, durante la lotta partigiana, che ha visto protagoniste molte donne, armi in mano, combattenti sui monti al pari degli uomini. È lì che la donna italiana ha simbolicamente raggiunto la parità con l’uomo. Ha dovuto attendere il 1946, però, per acquisire una uguaglianza fattiva attraverso il voto, quando cioè è stata riconosciuta soggetto politico collettivo. E poi la lotta è continuata con l’approvazione delle leggi sul divorzio e sull’aborto.
Anche Resistenza Femminista, partner con cui Iroko condivide un cammino comune sulla visione abolizionista della prostituzione, sostiene che le donne siano innanzitutto un soggetto politico collettivo.
Ma cosa vuol dire Resistenza Femminista e quando nasce la collaborazione con Iroko?
L’abbiamo chiesto a Chiara, esponente del movimento.
C. Siamo un collettivo di donne di tutte le età, provenienti da varie parti d’Italia. Il primo nucleo del gruppo nasce nel 2011, ma già l’anno prima alcune di noi si erano incontrate in rete intorno al blog Il corpo delle donne di Lorella Zanardo, dove ci si ritrovava a commentare e riflettere sul lavoro dell’autrice. Alcune di noi erano già attive come blogger (Consumabili), altre facevano già parte di collettivi (Connettive) e avevano esperienza come volontarie in Centri Anti violenza. Ci siamo riconosciute subito: la dimensione virtuale ci stava stretta, volevamo agire sulla realtà, tornare ad incontrarci. Al centro delle nostre discussioni in rete c’era la violenza maschile sulle donne in un momento di rinascita di interesse per il femminismo da parte anche delle nuove generazioni. Tra gli obiettivi del nostro gruppo c’era quello di creare un luogo sicuro per sopravvissute alla violenza maschile. Nel 2013 abbiamo partecipato all’Incontro Nazionale del Femminismo italiano che si è tenuto a Paestum, abbiamo scritto un documento collettivo dove abbiamo messo al centro il legame tra violenza patriarcale neoliberista e precarietà femminile su scala globale. Obiettivo della nostra partecipazione a Paestum era stato quello di riavviare un dialogo con il femminismo storico a partire da alcuni concetti chiave del femminismo stravolti, manipolati dal neoliberismo come quello della “libera scelta”, della libertà di disporre del proprio corpo. Avevamo iniziato ad occuparci di prostituzione e pornografia a partire dal nostro vissuto (nel nostro gruppo ci sono anche donne sopravvissute alla prostituzione) e ci interessava approfondire il legame tra precarizzazione del lavoro femminile e il tentativo del patriarcato globale di spingere le donne ai margini del mercato del lavoro per rinchiuderle nuovamente nei ruoli classici di madre dentro casa e prostituta nel bordello.
Di recente abbiamo avviato con Pina Nuzzo un nuovo esperimento di politica delle donne, un percorso che ha l’obiettivo di tornare a confrontarci su temi che ci stanno a cuore come la violenza maschile sulle donne in tutte le sue espressioni, dalla prostituzione, alla pornografia, alla maternità surrogata. Tutto questo a partire dalla nostra esperienza, il nostro vissuto di donne che si confrontano in uno spazio proprio, fuori dalle logiche patriarcali. Molte donne hanno risposto al nostro invito con grande slancio e altre si uniranno ai prossimi incontri, nei quali prevediamo di costruire insieme un’agenda politica condivisa.
I. “Il personale è politico” è il principio che ha spinto la seconda ondata femminista a partire dagli anni Settanta, quella formatasi in America nel contesto di lotta alla discriminazione razziale, al neocolonialismo e alla guerra in Vietnam: in una società democratica, che formalmente riconosceva l’eguaglianza di tutti i cittadini, senza distinzione di sesso, gruppi di giovani donne cominciarono ad avanzare riflessioni sulla persistenza del dominio maschile nella società, le cui radici erano per loro da cercarsi nella differenza sessuale. Nascevano così le Redstockings, portabandiera del femminismo radicale.
C. Gli anni Novanta – continua Chiara – sono stati invece quelli della comparsa del cosiddetto Liberal Feminism o “choice-feminism”, il femminismo della scelta. Come spiega bene l’accademica e attivista austrialian Meghan Tyler con cui siamo in contatto, nella raccolta di saggi da lei curata “Freedom fallacy”, la cosiddetta terza ondata femminista ha visto la diffusione di una forma di femminismo che flirta con il neo-liberismo. Al centro della riflessione infatti ci sono le scelte individuali delle donne, scelte isolate dal contesto socio-economico in cui si formano. Questo comporta conseguenze rilevanti sul piano politico: proprio perché l’unico criterio che conta è la difesa individualista della “libera scelta” si arriverà a sostenere il mercato del sesso e le sue leggi liberiste. Ogni tentativo di ostacolare lo sfruttamento sarà considerato un limite all’autodeterminazione femminile. A questo proposito Laura Agustin, sostenitrice dell’industria del sesso molto citata dalle femministe Liberal, ha coniato l’espressione “migrant sex workers” considerando la prostituzione un’opportunità lavorativa per le donne immigrate provenienti da paesi poveri. Laura Agustin è celebre anche per essere una negazionista della tratta che lei ritiene fenomeno sopravvalutato, cosi come la prostituzione minorile che lei considera una possibilità per le/gli adolescenti provenienti da paesi poveri di emanciparsi. Qui un articolo di approfondimento sulla questione.
Ovviamente non c’è traccia nel “femminismo della scelta” di una critica al capitalismo patriarcale, alla precarizzazione del lavoro femminile, in quanto il “sex work” celebrato come lavoro rappresenterebbe una valida alternativa alla disoccupazione. Una presa di posizione che si sposa perfettamente con l’agenda politica patriarcale che vuole le donne schiave dei bisogni maschili siano essi di cura e/o sessuali. Assente in questa analisi è poi il contesto politico- sociale in cui le donne fanno le loro scelte, cosi come l’intersezionalità tra oppressione di genere, classe, razza. Il fatto che una donna “scelga” la prostituzione in assenza di altre alternative non fa di quella scelta qualcosa di valido, ma casomai ci spinge a riflettere sull’ingiustizia di un contesto socio-economico che sfrutta la vulnerabilità delle donne. Allo stesso modo il razzismo nei confronti delle donne di colore, asiatiche, indigene è un meccanismo propulsore che favorisce e determina la prostituzione di ragazze giovanissime relegate ai margini della società. Non riconoscere questi fattori fondamentali nella “scelta” della prostituzione significa sostenere l’industria del sesso a discapito delle donne sfruttate. E tutto questo in nome della retorica dello scambio di “servizi sessuali tra adulti consenzienti”. La prostituzione diventa quindi un lavoro come un altro, anzi un modo per esprimere la propria sessualità. Vengono ignorati i racconti di donne che sono state costrette da situazioni di vita personale, abusi subiti, dipendenza da sostanze stupefacenti ecc. a prostituirsi. Rachel Moran co-fondatrice di SPACE International, organizzazione di sopravvissute all’industria del sesso – con cui collaboriamo – definisce la prostituzione la commercializzazione dell’abuso sessuale, ovvero uno stupro a pagamento.
L’intervista continua.