La femminilizzazione crescente dei flussi migratori mondiali è un fenomeno che interessa da alcuni anni anche l’Italia. Sono infatti le donne, provenienti da Paesi più poveri, a farsi sempre più spesso carico del ruolo di breadwinner, un tempo riservato agli uomini, allˈinterno delle loro famiglie; sono loro che, con l’aumento della precarietà del lavoro, diventano la speranza inserendosi in gran parte nella rete di assistenza familiare in Paesi dove il welfare è ancora solido.
È una scelta radicale quella della migrazione, spesso disperata, che pone su un Paese come l’Italia grandi aspettative, investito del ruolo di paese di diritto.

Come sempre, la migrazione porta con sé le contraddizioni radicate nei paesi di origine ma rivela anche quelle proprie del sistema di destinazione.
Sono proprio queste donne migranti che nella loro condizione di vulnerabilità “scardinano le ambiguità insite nello stato di diritto del sistema italiano”: è quel che sostiene Simona Gioia, psicologa presso l’Associazione Frantz Fanon, in apertura all’incontro su “La vulnerabilità delle donne migranti nel percorso migratorio. Protezione giuridica e sanitaria delle vittime di violenza e sfruttamento”, organizzato il 22 giugno da Progetto Mediato presso IRES Piemonte a Torino.

La mediazione etno-clinica, strumento di sostegno di un percorso migratorio, agisce spesso su donne che hanno perso fiducia nel mondo circostante, che giungono da contesti che hanno subito un’urbanizzazione accelerata, minando il legame sociale tradizionale. “Sono le donne che scelgono di raccontare – spiega Gioia – , la sfida da parte nostra è quella di ascoltare i bisogni prioritari del singolo, evitando il rischio di cadere in nostre categorie concettuali”.

Le donne entrano nel sistema di accoglienza italiano proprio perché vulnerabili, ma il rischio è che essa diventi l’unica chiave di lettura dei loro bisogni.

La vulnerabilità, in fondo, che cos’è?
Vulnerabile è chi è esposto alla possibilità di essere ferito, violato, leso, colpito, non necessariamente chi è in tale condizione.Nelle storie dei rifugiati politici, dei richiedenti asilo, degli apolidi, delle vittime di tratta, è insita la potenzialità alla vulnerabilità: il senso di non appartenenza, in cui la persona si trova, lo espone a un rischio di disagio psicologico legato alla difficoltà di riconoscersi e di essere riconosciuto. Non tutte le persone vulnerabili sono vittime, ma entrambe le categorie hanno diritto ad una protezione, riconosciuta all’interno di un sistema più ampio di diritti, quegli stessi riconosciuti alle vittime.

La riflessione, portata dall’avvocato Fabrizio Giorcelli di ASGI, riprende il valore, non solo giuridico, della Direttiva UE 25 ottobre 2012, che riconosce la necessità di informare la vittima sul proprio caso, quindi il diritto alla traduzione e ai servizi di assistenza e alla protezione da ritorsioni.

La giusta informazione viene garantita alla vittima da una formazione continua rivolta agli operatori: formare, dunque, è anche strumento per ridurre la vulnerabilità dei migranti.

Con questa legge si riconosce l’intervento specialistico a tutela della donna come parte di un sistema di tutela genericista.

“La decisione di migrare – sostiene Monique Diarra, ostetrica che collabora con CCM -, è di per sé una violenza, quando avviene in condizioni di necessità, anche nei casi di ricongiungimento familiare. La donna migrante, perciò, subisce una doppia discriminazione: come donna e come migrante”. I riti religiosi e una tradizione culturale radicata spesso occultano forme di violenza che nemmeno la donna stessa riconosce come tali.

Educare una donna significa educare un popolo, ricorda Diarra. Per questa ragione riconoscere la dignità del lavoro, favorire l’accesso ai servizi e costruire una scuola interculturale sono strumenti essenziali per garantire ad ogni donna i suoi diritti.

Il dialogo, e prima ancora, l’ascolto attivo, insieme alla garanzia di una protezione, sono i primi elementi per costruire una mediazione con le donne violentate, molte delle quali sono accolte nel Centro Soccorso Violenza Sessuale dell’Ospedale Sant’Anna a Torino.

Torino lavora da anni sul sistema della tratta e della prostituzione, e in generale sui percorsi migratori. Quest’anno è stato approvato il Piano Nazionale Antitratta. Eppure l’Assessora alle Pari Opportunità della Regione Monica Cerutti riconosce una incapacità del sistema pubblico di costruire un’accoglienza che sia strutturale e non emergenziale.

“Passi importanti sono stati fatti – ricorda Cerutti -: è stata approvata la legge 4/2016 sul contrasto alla violenza di genere, su prevenzione e sostegno alle vittime di violenza e di tratta; stiamo lavorando per costruire un piano triennale grazie alle risorse economiche provenienti dal FAMI e dal FSE, alla costruzione della nuova legge sull’immigrazione e all’accoglienza dei minori stranieri non accompagnati”.

È però anche necessario riconoscere e tutelare le vittime di tratta all’interno dei flussi di richiedenti asilo e garantire loro un percorso di protezione fin dall’ingresso negli hotspot. E ancora una volta la partita si gioca sulla formazione degli operatori, in primis i mediatori, e sulle risorse economiche da destinare nei giusti canali. Per esempio, sull’aumento dei posti predisposti per il sistema tratta all’interno di CAS e SPRAR, che ad ora sono solo mille.