Rilievi critici alla carta di intenti e alla mozione del “2° Incontro Nazionale di Perugia delle unità di strada e di contatto della PIATTAFORMA NAZIONALE ANTI-TRATTA novembre 2018

Anche secondo le convenzioni internazionali, la prostituzione è una delle forme di violenza maschile da contrastare e abolire.

Paesi virtuosi hanno inscritto nelle loro leggi abolizioniste (Svezia, Norvegia, Francia, Islanda, Irlanda, Irlanda del Nord, Israele, Canada) che la prostituzione è una forma di violenza sulle donne deputata alla riduzione in schiavitù delle donne, che non può essere considerata un lavoro e tantomeno sarebbe il più antico mestiere del mondo: la predazione sessuale è certamente ciò che l’ha preceduta.

Ormai si sa tutto della dimensione criminale delle lobbies del sesso a pagamento, del loro vertiginoso giro di affari, del loro bisogno di estendere il mercato e catturare più “merce”. Donne non sempre schiavizzate a botte e ricatti, ma anche catturate con la manipolazione psicologica da mariti, fidanzati, dalle famiglie col ricatto del bisogno. Sono mille i modi per i quali, e non solo con la tratta, la società continua a prostituire le donne “risorsa quando tutto manca” in pace e in guerra.

Eppure, in Italia, esiste una rete di soggetti (oggi riuniti nella piattaforma nazionale anti tratta che hanno sottoscritto la Mozione di Perugia) che appellandosi alla convenzione di Istanbul pensano di potersi occupare di prostituzione suddividendo le donne in prostitute e prostituite, dove le prime sono libere professioniste e le seconde sono donne alla mercé dei traffici criminali, e di queste si vogliono occupare con le loro unità di strada. In difesa delle donne prostituite questa rete vuole affrontare il fenomeno senza colpire la domanda (i clienti), dicono, per evitare di costringere le donne a chiudersi nelle case ed a sottrarsi “all’aiuto” delle unità di strada.

Ma di che aiuto si parla, quale la politica di prevenzione del fenomeno vi è dietro questo aiuto?

Prima di tutto la prevenzione cui si riferisce è quella dell’occultamento dei problemi complessi delle vittime di prostituzione e sfruttamento; è una prevenzione che si richiama in modo surrettizio alla Convenzione, ma che non riconosce la violenza del cliente sulle donne prostituite che loro dividono in modo manicheo tra costrette (vittime di tratta) e volontarie in modo da negare/non riconoscere l’unitarietà della condizione di vittima delle donne nella prostituzione come forma di violenza al pari di altre. La prevenzione propugnata, di fatto, sposta l’attenzione dalle vittime al problema sociale percepito: un punto di vista che mette insieme il decoro e la sicurezza dei cittadini, la tutela dei clienti, e una astratta quanto ideologica riduzione del danno delle prostituite vittime di tratta. La condizione soggettiva delle donne prostituite non vittime di tratta, determinata dalle violenze dei clienti, dai traumi fisici causati da un numero illimitato di rapporti indesiderati, da tempi di commercializzazione del sesso massacranti, in questa analisi appare meno importate del trauma dovuto alla stigmatizzazione sociale (che sarebbe, per altro, in diretta dipendenza del mancato riconoscimento professionale delle prestazioni a pagamento). Problema centrale di questa prevenzione è quindi il contenimento del disagio e quello della salvaguardia degli enti erogatori. Sappiamo che la mediazione tra soggetti implicati, per intenderci vittime e carnefici, è sempre più presente nelle prestazioni offerte da enti erogatori di assistenza, dove spesso la tutela legale delle vittime e l’accompagnamento alla denuncia appare sfumata. La Convenzione di Istanbul esclude in modo categorico la mediazione e affida un ruolo primario alla denuncia.

L’aiuto di cui la rete parla è una sorta di terza via, quella offerta nell’ambito della riduzione del danno, inclusiva anche del cliente considerato vittima delle sue pulsioni, invece che complice degli sfruttatori. Si delineano zone apposite nelle quali alle prostituite vengono offerti aiuti per tutelare la salute sessuale (lo strumento “del mestiere” a vantaggio dei clienti) come i preservativi e dove “volontari” farebbero la ronda contro gli eccessi esuberanti dei clienti. Senza entrare nel merito sull’efficacia della difesa dalle violenze del cliente “che paga e ha sempre ragione”, visto che queste si verificano proprio durante il rapporto, va fatta la valutazione sul tipo di danno che si intende contenere. Si tratta di quello esclusivamente fisico contestuale (non delle patologie indotte per esempio dalla frequenza inaudita dei rapporti subiti), mentre il danno psicologico, come detto, non viene neanche preso in considerazione.

Va inoltre osservato che questa che abbiamo chiamato la terza via, sdoganando il reclutamento della “merce”, non avrebbe problemi a convivere con un regime di case chiuse, perché ambedue i modelli si basano sulla ineluttabilità, o anche la necessità, della prostituzione.

Ma c’è di più, la terza via, ovvero la riduzione del danno, non ha come reale e concreto obiettivo l’affrancamento dalla tratta, l’emersione del fenomeno attraverso il sostegno alla denuncia e percorsi di uscita dalla prostituzione analoghi a quelli previsti per uscire dalla violenza. Basta leggere i numeri risibili sull’attività di fuoriuscita delle donne dalla tratta.

Dunque le donne prostituite, non solo le donne vittime della tratta internazionale a scopo di sfruttamento sessuale, pur essendo a tutti gli effetti vittime della violenza maschile, si trovano al centro di una colossale contesa “sul chi si occupa e di che cosa”, che ha radici profonde nella cultura patriarcale che continua a concepire la prostituzione come il mestiere più antico del mondo e una risorsa nell’equilibrio sociale, e destinatarie di un intervento di contenimento del danno personale e sociale: in perfetto equilibrio tra l’esigenza di usare il corpo delle donne e quella di contenerne gli effetti più indecorosi.

Per questo le reti che si occupano delle donne implicate nel mercato delle prestazioni sessuali a pagamento, non seguono le regole dell’intervento per la fuoriuscita della vittima dal contesto violento e della contenzione dell’offender. Il meccanismo è palese perché mentre le femministe premono per il perseguimento e l’esclusione della causa a monte, colui che fa violenza, chi si occupa di prostituzione spesso lo fa rinunciando all’azione di pressione politica per lo smantellamento della rete criminale, che vive sul lucro derivante dalla domanda (il cliente) di sfruttamento del corpo delle donne.

Questo accade forse volutamente, visto che la politica tollera (e spesso se ne serve) forme più o meno celate di imprese per lo sfruttamento delle donne prostituite. Le donne vittime di prostituzione sono abbandonate a loro stesse, a causa di questa inerzia pubblica, e per questo obbligate a rispondere sempre meglio a stereotipi che presumono possano metterle al riparo da un destino peggiore.

Quante donne prostituite vogliono uscire dalle violenze che subiscono? Se nelle vittime dei rapimenti e di lunghe segregazioni insorge la “sindrome di Stoccolma”, come mai questa possibilità non viene riconosciuta nella pervicace difesa dello sfruttatore? Quante tra le “volontarie”, in questa situazione, sono incentivate a denunciare clienti e sfruttatori? È possibile aspettarsi che denuncino avendo come controparte oltre al protettore anche un committente potente disposto a tutto pur di rimanere nell’anonimato? A queste domande non c’è risposta, ma c’è la generosa offerta di tutelare la loro pericolosissima attività.

Afferma il documento di Perugia: “Persone che devono essere, al di là delle loro specifiche posizioni, condizioni e scelte, riconosciute al centro degli interventi, nella finalità prima di tutelarne e promuoverne i diritti, evitando ogni tentazione giudicante o criminalizzante. Lavorando “con” e non “per” loro, in primis favorendone il protagonismo, la partecipazione e l’auto-determinazione. Da questa prospettiva e segnalando l’anomalia dell’attuale dibattito sulla prostituzione in cui è assente la voce di chi conosce meglio di tutti il fenomeno e le sue dinamiche, cioè le/i operatrici/ori e le/i sex workers […]

Si tratta quindi di un tipo di intervento che, è ispirato all’adozione di un modello non abolizionista e che considera la prostituzione come un comparto da liberare dai pregiudizi sociali e “da far emergere”. Un comparto appunto, economico con la tutela del lavoratore (anche se resta il fatto che la maggioranza delle vittime delle prestazioni sessuali a pagamento sono donne). Questo approccio, fatto da soggetti che operano con fondi pubblici, ha un vantaggio si pone fuori dalla convenzione di Istanbul, perché si occupa di lavoratori di ambo i sessi, e se si tratta di lavoratori in un ambito “tendenzialmente” da regolamentare, ovviamente non persegue la scomparsa dell’impunità del reato (nell’ambito della legge Merlin), ma la scomparsa del reato stesso.

Alla luce di tutto questo è del tutto insensata l’accusa lanciata della piattaforma anti-tratta alla coalizione abolizionista di non lavorare “con” le donne che si trovano in prostituzione. La coalizione infatti ha tra le sue militanti proprio le sopravvissute che fanno parte di associazioni anche di respiro globale come SPACE International (presente in 9 paesi); e sono proprio le sopravvissute, in numero sempre maggiore, a testimoniare il colossale fallimento umano, ma anche sociale di tutti i modelli di regolamentazione. Le testimonianze vengono dalla Germania e dalla Nuova Zelanda, oltre che dal mondo così detto clandestino. Le attiviste sopravvissute ci ricordano, tra le altre cose, come il termine ‘sex worker’ sia stato coniato dall’industria del sesso allo scopo di occultare la violenza commessa da clienti e sfruttatori sulle donne, facendo diventare la violenza maschile “un lavoro come un altro”.

La soluzione facile sarebbe quella di spingere il parlamento ad adottare il modello nordico, avendo di fronte una delle lobby economiche più potenti del mondo, la lobby dei clienti e i regolamentatori di destra e di sinistra. La soluzione semplicistica sarebbe quella di punire i clienti che violentano le donne a pagamento. Se questo è semplicistico, è altrettanto semplicistico reclamare l’efficacia delle pene per i femminicidi? La prostituzione è violenza, la consideriamo tale supportate da norme internazionali, abolire ogni forma di tolleranza è il primo passo necessario a partire dai clienti. Un passo necessario contro l’omertà che avvolge i crimini del business prostitutivo. Nessuno in Italia (oggi e non sappiamo poi se dovesse instaurarsi la violenza autorizzata a pagamento) si sognerebbe di proporre la depenalizzazione degli altri reati nell’ambito del femminicidio, ma lo si fa per lo sfruttamento della prostituzione di cui i clienti sono la parte e causa.

La discussione, anzi la polemica, che da anni si trascina, sembra destinata a rimanere tale in quanto il confronto è tra due materie molto lontane, da una parte i diritti umani delle donne, dall’altra la proposizione dei così detti nuovi diritti erga omnes (anche dei clienti e degli stupratori “poveri cristi”) in sostituzione dei primi.

Aggiungiamo che le posizioni regolamentariste condivise dalla piattaforma oggi hanno di fatto spianato la strada al progetto di riapertura delle case di tolleranza, a cui la Merlin aveva messo la parola fine dal 1958.

È innegabile che la stessa tratta a scopo di sfruttamento sessuale non ci sarebbe senza domanda di prostituzione. Continuare a lasciare impunito il cliente fautore della domanda che genera la tratta non può essere una soluzione accettabile. Ancor più inaccettabile in un paese che persegue ufficialmente le prospettive, inseparabili, di combattere il crimine della schiavizzazione sessuale e l’eliminazione della violenza sulle donne.

Le prostituite uccise e menomate, dopo la loro cattura al mercato, nel nostro paese lo sono, in maggioranza, per mano dei clienti: di questo è l’intera politica a dover dar conto.

Per la rete abolizionista:
Resistenza Femminista
Associazione Salute Donna
Associazione Iroko
UDI – Napoli

3-04-2019