Il ciclo di webinar “Smontare il sex work”, organizzato dall’Associazione Iroko Onlus ogni giovedì, ha visto come ospiti nel penultimo di sette incontri Mickey Meji, sopravvissuta, attivista e fondatrice del SESP Survivor Empowerment & Support Programme, e Sigma Huda, avvocata presso la Corte Suprema del Bangladesh, ex relatrice speciale sulla tratta, in particolare di donne e bambini, per le Nazioni Unite. 

In merito alla tratta a scopo sessuale, Sigma ricorda che gli ordinamenti legislativi a livello nazionale si rifanno a tre modelli, adottati per contrastare/regolare il fenomeno della prostituzione: 

  1. il modello proibizionista
  2. il modello regolamentarista 
  3. il modello abolizionista 

Nel modello proibizionista la prostituzione è considerata un’attività illegale da perseguire penalmente; è vietato offrire prestazioni sessuali a pagamento ed è reato anche l’acquisto di esse; vengono perseguite anche le “attività di contorno alla prostituzione”, tra le quali lo sfruttamento della prostituzione, l’induzione, il favoreggiamento.

Nel modello regolamentarista la prostituzione è intesa come  un’attività lecita, al pari di una qualsiasi attività commerciale. La prostituzione minorile è vietata e viene condannata qualsiasi forma di costrizione o coercizione, per quanto sia più difficile individuarle. Considerando il contenuto di alcuni dei trattati internazionali, questo modello purtroppo si presenta in linea con i più recenti strumenti pattizi, il cui obiettivo è limitato alla sola repressione di fenomeni come la tratta di esseri umani, e non tanto il divieto di prostituzione in quanto tale. Il Protocollo delle Nazioni Unite sulla prevenzione, soppressione e persecuzione del traffico di esseri umani, in particolare di donne e bambini, adottato a Palermo nel 2000, non vede più un riferimento alla repressione della prostituzione in sé, bensì alla repressione del traffico di esseri umani attraverso coercizione.

Entrambe le attiviste, Meji e Huda, sostengono il modello nordico o abolizionista per combattere lo sfruttamento sessuale della prostituzione e contribuire quindi a cambiare la mentalità della società. Esso, infatti, considera la prostituzione come un’attività non lecita né tantomeno commerciale, ma al tempo stesso non punisce penalmente le donne prostituite evitando così di aggravare la loro situazione. Negli ordinamenti che adottano questo modello, infatti, offrire prestazioni sessuali a pagamento non è reato (salvo forme di adescamento). Vengono condannate invece le attività associate alla prostituzione, quali lo sfruttamento, il reclutamento e il favoreggiamento.

Nel 1985 Sigma riuscì a trasformare un evento tragico in un caso giudiziario in Bangladesh: ad un elevato numero di donne incinte fu vietato di continuare ad esercitare la prostituzione, fatto che aggravò la loro già precaria condizione economica, poiché non era riconoscuta alcuna via alternativa di sostegno economico e di supporto all’uscita da tale forma di schiavitù. Sigma si impegnò a richiedere una spiegazione al Ministro della Giustizia riguardo a questo divieto, sostenendo che l’obiettivo doveva rimanere l’attivazione di misure per la criminalizzazione dei prosseneti, (trafficanti e “protettori”), evitando di danneggiare le donne prostituite.

L’avvocata sostiene che la situazione in Bangladesh, per quanto riguarda la prostituzione, è ambigua e per questo indebolisce il sistema, poiché vi è un confine molto labile nella legislazione tra ciò che è considerato legale e ciò che è inteso come sfruttamento. Infatti, per giustificare la prostituzione basta firmare un “affidavit”, se si è maggiorenni, con il quale si dichiara di non riuscire ad avere altra occupazione e di essere consapevole della scelta che si sta per fare, ossia prostituirsi. Dall’altro lato vige però il “The Prevention of Women & Children Repression Act” [1] in vigore dal 2000, che rende illegale la prostituzione forzata introducendo pene severe per sfruttatori e compratori di sesso.
Sigma spiega infatti che la Costituzione del Bangladesh ha principi precisi, ma contiene una zona grigia rappresentata dall’art. 29 parte terza, che recita: “Tutti hanno diritto ad avere un lavoro”.[2] “I papponi cercano di appropriarsi di tale diritto” ribadisce l’avvocata e aggiunge: “In ogni municipalità il cittadino può richiedere il suo permesso di lavoro”. Questo, stando a quanto spiega Sigma, facilita l’ingresso di ragazze nella prostituzione e la maggiore età, richiesta per l’affidavit, non viene quasi mai verificata. “Molti prosseneti iniettano sostanze alle bambine per farle sembrare più grandi, già a partire dai 10 o 12 anni.” Sigma poi aggiunge: “Il permesso di lavoro, inoltre, non protegge nessuna donna prostituita dallo stigma e molte finiscono nelle rete della prostituzione per traumi passati come incesto o tratta.”
La tratta di esseri umani è vietata in Bangladesh ed è punita con il carcere per almeno cinque anni e con una sanzione pecuniaria di almeno 50.000 Taka (all’incirca 510 euro). Ai sensi dell’articolo 3, lettera a), del Protocollo di Palermo, la tratta viene definita come: “coercizione per fini di sfruttamento, con l’obiettivo da parte di una persona, di ottenere il controllo su un’altra. Tale disposizione giuridica riconosce come sfruttamento a tale riguardo quello sessuale, il lavoro forzato, la schiavitù o altre pratiche affini, la servitù o il prelievo di organi.”
Il Bangladesh è uno dei Paesi principali dove ha origine la tratta di esseri umani, tuttavia negli ultimi anni è divenuto anche un Paese di transito e di destinazione. Stando a quanto analizzato dall’UNICEF, la discriminazione e le disparità diffuse tra i gruppi marginali e la scarsa affidabilità dei mezzi di sussistenza sono connesse al fenomeno della tratta degli esseri umani. La povertà resta la causa maggiore che spinge a migrare e, di conseguenza, ad accettare offerte di lavoro che si rivelano forme di sfruttamento e caporalato. Le vittime bengalesi della tratta possono arrivare in qualsiasi parte del mondo e le forme di sfruttamento moderne comprendono il lavoro forzato nell’agricoltura, nella pesca e nell’edilizia, la servitù domestica e la tratta a scopo di sfruttamento sessuale.
Il governo ha segnalato 355 vittime nel 2016, in diminuzione rispetto al biennio 2014/2015, dove le vittime salgono rispettivamente a 2.899 e 1.815. Gli esperti interpellati per la relazione del 2017 del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti sulla tratta di esseri umani, hanno precisato che «tale diminuzione potrebbe essere dovuta in parte all’applicazione di una definizione più accurata di tratta».

Le testimonianze di sopravvissute sono fondamentali per scuotere l’opinione pubblica e far conoscere la realtà violenta del mondo prostituente. Così è stato recentemente proprio in Bangladesh, dove cinque ragazze sono riuscite a scappare dalla tratta online, portando alla luce il dramma dell’industria del sesso.
Il traffico di esseri umani e lo sfruttamento sono in aumento nel Paese, che non sembra contrastare efficacemente i trafficanti ed è stato per questo definito come “vulnerabile” dall’Ufficio per il monitoraggio e il contrasto del traffico di persone del Dipartimento di Stato USA. Per qualche spicciolo le ragazze vengono vendute dai compagni o dalle famiglie povere, rapite e drogate per poi farle sparire; mentre le madam e i trafficanti costringono le ragazze a firmare l’affidavit contro la loro volontà.

Tra i Paesi considerati vulnerabili c’è anche la Thailandia, conosciuta per il turismo sessuale. “Gli uomini compratori di sesso sono visitatori casuali che poi vanno via, come i turisti tedeschi che comprano bambine di 12 anni spendendo tutti i soldi della loro pensione. Questi Paesi sono poveri, per questo le famiglie vendono le figlie”, riporta Sigma.
L’avvocata riflette sulla prostituzione affermando che le donne, in questa forma di schiavitù, hanno un ruolo subalterno e chiunque può servirsi dei loro corpi. “La prostituzione avviene in aereo, nelle case, in qualsiasi posto. La decriminalizzazione e la legalizzazione non proteggono la donna prostituita. Se accettiamo i quartieri a luci rosse, quindi il contratto della vendita del corpo, allora gli uomini che hanno fantasie sadiche possono realizzarle con le prostitute e non con le mogli, perché le prime vengono considerate donne di serie B. Insomma, accettiamo un vero e proprio sistema di disuguaglianza. Lo stigma rimane sulla donna e non sul cliente.” 
Mickey aggiunge che le donne non scelgono di essere prostitute, ma è la prostituzione che sceglie loro, “La loro vulnerabilità e il contesto in cui vivono prepara il terreno”, e continua: “Ci sono donne povere e nere per la maggioranza in una condizione di vulnerabilità. Melissa Farley ci dice che il 70% delle donne che sono entrate nella prostituzione si sono trovate in quella situazione già da bambine e l’attimo dopo in cui passano alla maggiore età si entra paradossalmente nella cosiddetta libera scelta, ossia consenso.”
Sigma contesta lo slogan “sex work is work”: “Quale scelta?” – dice -. “La vendita del proprio corpo? E perché allora ci sono così tante vittime? Quello che cercano i sostenitori del sex work è il controllo dei corpi, ma ciò è praticamente impossibile nella prostituzione, visto che è una terza persona a comprare il corpo di una donna”. 

Per entrambe le attiviste una delle soluzioni risiede proprio nelle costituzioni di alcuni Stati e tra questi anche il Bangladesh e il Sudafrica.
Mickey ribadisce che la Bill of Rights del Sudafrica [3] dispone dell’articolo 37, che garantisce il diritto alla vita come diritto inalienabile, ed è ora minacciato dalla prostituzione. “In Sudafrica il tasso di femminicidio è elevato, possiamo immaginare quanto sia dura per le donne in prostituzione”, afferma Mickey. “Nel Senegal, dove la prostituzione è legale, sono le donne a dover fare i test per l’AIDS, non i clienti e se sei positiva non puoi più esercitare, mentre gli uomini sono liberi di infettare.”
Un altro strumento che potrebbe tornare utile è la Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli adottata a Nairobi, in Kenya, il 27 giugno del 1981. Entrata in vigore il 21 ottobre del 1986, oggi tutti gli Stati appartenenti geograficamente al continente africano ne fanno parte tranne il Regno del Marocco, ma ci sono buone probabilità che esso possa prossimamente aderire alla Carta Africana.

Potenzialità e limiti della Carta Africana

Il sistema africano di tutela dei diritti umani fa perno su questo trattato in cui vengono enunciati i diritti tutelati e viene disciplinato il meccanismo di controllo, la Carta Africana dei diritti dell’uomo e dei popoli appunto, quale strumento vincolante e un trattato al pari della CEDU e della Convenzione Interamericana.
La Carta Africana si suddivide in tre parti: la prima parte relativa ai diritti garantiti, la seconda contiene le clausole delle disposizioni transitorie finali, la terza si occupa e disciplina una parte del meccanismo di controllo del rispetto dei diritti enunciati da parte degli Stati.
Il meccanismo di controllo della Carta Africana è binario, si snoda attorno ad una  Commissione africana dei diritti dell’uomo e dei popoli e una Corte Africana dei diritti dell’uomo e dei popoli. Accanto a queste ultime si collocano anche otto Tribunali sub regionali appartenenti alle organizzazioni di integrazione economica. Queste  organizzazioni, di cui fanno parte 5 o 6 Stati, hanno come obiettivo principale l’integrazione economica, e i tribunali, che operano nel loro contesto, con il tempo hanno acquisito  competenze in materia di diritti umani e, in alcuni casi, gli Stati hanno addirittura confermato questa competenza con dei protocolli addizionali.
L’art 4 della Carta Africana sancisce che nessun individuo può essere arbitrariamente privato della vita, tuttavia quell’arbitrariamente permette, per esempio, la pena di morte se vi è una sentenza di un tribunale.
Alcuni gruppi sociali non sono tutelati, in particolare le donne, e non c’è una norma nella Carta Africana da cui si possa ricavare il divieto di infibulazione, di mutilazione genitale femminile per prestare ossequio a quelle che sono le “tradizioni africane”. Inoltre, manca una clausola di deroga che, dove presente, permette ad uno Stato di erogare dei diritti garantiti in uno strumento convenzionale con delle eccezioni e, generalmente, vengono fatti salvi i cosiddetti core rights, tra i quali il diritto alla vita, il divieto di tortura, il divieto di schiavitù o anche in alcuni casi l’irretroattività della norma penale. Oltre a ciò, gli Stati in caso di emergenza possono sospendere la Carta Africana avvalendosi semplicemente delle norme contenute nella Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, escludendo quindi anche la tutela dei core rights. Ciò non accade, invece, in caso di applicazione della clausola di deroga, negli Stati americani o europei, dove la clausola è contenuta sia nella CEDU che nella Convenzione interamericana.

Ad oggi, il sistema di tutela dei diritti umani in Africa risulta essere ancora pernicioso e complesso. Una diffusa e forse eccessiva culturalizzazione dei diritti dell’uomo rende il sistema poco efficace: se da un lato, infatti, la tutela dei diritti viene letta secondo la cultura e i valori tradizionali, dall’altro ciò può penalizzare intere categorie di persone in nome di questi valori. È come se nella Carta Africana vi fosse una sorta di primato dei valori tradizionali rispetto ai diritti enunciati. La cultura tradizionale non può essere tutelata fino al punto da sacrificare o limitare certi diritti inerenti all’individuo. Nella Carta, in particolare, non è tutelata la parità tra uomo e donna; non è prevista alcuna forma di tutela nel diritto di ognuno a contrarre liberamente matrimonio. In un tale contesto è molto probabile che la tratta trovi terreno favorevole per svilupparsi ed eludere il sistema. Una soluzione dunque potrebbe essere rafforzare il sistema di tutela dei diritti umani creando un bilanciamento con il riconoscimento dato ai valori tradizionali. Certamente parliamo di un percorso lungo di miglioramento che va affiancato alla lotta contro la prostituzione.

Questo articolo è stato scritto in collaborazione con la dott.ssa Giulia Poletti.

Fonti

[1] https://evaw-global-database.unwomen.org/en/countries/asia/bangladesh/2000/prevention-of-cruelty-against-women-and-children-act-2000
[2] https://www.constituteproject.org/constitution/Bangladesh_2014.pdf?lang=en
Parte III articolo 29. Pari opportunità nel pubblico impiego
1. Vi devono essere pari opportunità per tutti i cittadini per quanto riguarda l’impiego o l’ufficio al servizio della Repubblica.
2. Nessun cittadino, per motivi esclusivamente di religione, razza, casta, sesso o luogo di nascita, può essere ineleggibile o discriminato in relazione a qualsiasi impiego o carica al servizio della Repubblica.
3. Nulla in questo articolo vieta lo Stato di:
a. prevedere speciali provvedimenti a favore di eventuali fasce arretrate di cittadini al fine di garantirne un’adeguata rappresentanza al servizio della Repubblica;
b. dare attuazione a qualsiasi legge che preveda di riservare incarichi relativi a qualsiasi istituzione religiosa o confessionale a persone di tale religione o confessione;
c. riservando agli appartenenti ad un sesso qualsiasi categoria di impiego o carica in quanto ritenuto per sua natura inadatto agli appartenenti al sesso opposto.

[3]  https://www.justice.gov.za/legislation/constitution/SAConstitution-web-eng-02.pdf
http://www.carlofusaro.it/materiali/costituzione_sudafrica.html
Titolo 1 – Disposizioni fondamentali Art 11 – Vita Tutti hanno il diritto alla vita.