“L’arte è un modo di guardare il mondo”. Questo è il motto che ha guidato i curatori della rassegna ‘Rosso Indelebile’, contenitore artistico itinerante organizzato a Torino dal 23 novembre al 7 dicembre scorsi dalle associazioni Artemixia ed Eikòn, per celebrare la Giornata Mondiale contro la violenza sulle donne, che cade ogni anno il 25 novembre.
Rosso Indelebile, nato dall’idea dell’artista e curatrice Rosalba Castelli, è un progetto artistico fatto di conferenze divulgative, una collettiva di arte contemporanea, incontri con le scuole, laboratori sulla prevenzione della violenza di genere, performance di musica, danza, teatro, reading, fotografia e videomaking, con lo scopo di denunciare la violenza di genere, raccontarla, anche attraverso le testimonianze, dare voce a chi la vive e a chi assiste a forme di violenza, dai bambini alle donne ai trans; incoraggiare chi è vittima a denunciare e a credere di poter superare il senso di vergogna e l’offesa subita.
Esistono tante forme di violenza, e nessuno, nessuna, ne è davvero esente nel corso della vita: nessuno, quindi, si senta solo nella ricerca di un percorso di uscita.
Come Iroko, siamo state invitate all’anteprima della rassegna, lo scorso 23 novembre, tra gli ospiti del convegno, parte dell’evento #25novembresceglitu, organizzato in collaborazione con M.A.I.S. Ong.
La violenza di genere è innanzitutto un problema culturale, come ha ribadito Valeria Quaglia, sociologa presso l’Università di Torino, che ha fornito un dato significativo: sono 6.788.000 le donne che hanno subito una qualche forma di violenza fisica o sessuale, e questo è certamente un dato parziale, considerato che si basa solo sui fenomeni emersi, ma sappiamo bene che i dati del sommerso superano di gran lunga quelli conosciuti.
Cristiana Mozzatto, avvocata penalista, ha invece ricordato alcuni tra gli strumenti giuridici a disposizione e a sostegno delle vittime di violenza domestica e di genere: dalla legge n. 38/2009, che definisce il reato di stalking come delitto penale contro la libertà morale; alla ratifica della Convenzione di Istanbul nel 2013; alla recente approvazione del Codice Rosso, con il quale sono stati introdotti, tra gli altri, il divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa; l’aumento da 6 a 12 mesi come tempo per presentare la denuncia per stupro da parte della vittima; la codifica della violenza assistita.
Per quanto siano stati fatti dei passi avanti, i dati ci dicono, però, che la realtà della violenza contro le donne è ancora molto preoccupante, a prescindere dalla provenienza delle vittime e/o dei criminali. Il rapporto AGI 2018 solleva una riflessione in merito ai dati sullo stalking confrontandoli con il tipo di uomini che si macchia di questo reato, che è in aumento, e, a dispetto dei diffusi stereotipi contro gli stranieri, è molto alto anche tra gli italiani: “un riferimento preciso ai dati concreti renderebbe più corretta la descrizione del fenomeno e meno facile da veicolare una narrazione che vede spesso gli stranieri additati come responsabili delle violenze e delle aggressioni. Perché lo stalking è un tema che riguarda soprattutto gli italiani, visto che oltre l’80% delle donne che denunciano, denunciano un cittadino italiano”.
Il quadro normativo italiano a proposito di violenza di genere e domestica è, quindi, molto ampio e concentrato soprattutto sulla criminalizzazione delle condotte, ma, come denuncia il rapporto 2018 pubblicato da D.I.Re, “lo stesso purtroppo non può dirsi per tutto ciò che è necessario per garantire l’implementazione efficace delle norme da parte dei soggetti a ciò preposti per dare buone risposte alle donne e figli/e che chiedono supporto per uscire dalla violenza. Nel loro percorso, infatti, le donne, trovano ancora troppi ostacoli sia con le forze dell’ordine, che con professionisti/e dell’ambito sociale e sanitario, dovuti ancora a scarsa preparazione e formazione sul fenomeno della violenza, ma soprattutto al substrato culturale italiano, caratterizzato da profondi stereotipi sessisti e diseguaglianze tra i generi, oltre che pregiudizi nei confronti delle donne che denunciano situazioni di violenza, cui ancora si tende a non credere”.
La psicologa Anna Buonocore, durante il dibattito, ha provato ad analizzare il rapporto tra la relazione sentimentale e quella carnale all’interno della violenza di genere, a partire dal mito di Medusa. Tale violenza nasce sempre da fattori culturali e ciò si ritrova in maniera evidente nell’iconografia fortemente stereotipata dei corpi femminili, fin dalla mitologia classica. Medusa viene punita per la sua sensualità dalla più mascolina dea Atena con la trasformazione-maledizione in mostro, esattamente come mostruosa diviene la donna che non si collochi in una posizione di chiara subordinazione alla figura maschile nella società patriarcale. Negli occhi pietrificanti della Gorgone si può leggere anche l’effetto paralizzante del trauma, che la vittima fa ricadere su chi ha di fronte. Medusa, dunque, assume un doppio ruolo: vittima e carnefice allo stesso tempo. Lo specchio, che Atena dà a Perseo per riflettere lo sguardo di Medusa, dal quale sarebbe stato pietrificato, è – secondo Buonocore, che riprende la riflessione della filosofa Maria Zambrano – lo strumento attraverso cui governare la potenza negativa di Medusa, imprigionarla. La stessa visione si ritrova nelle storie di donne vittime di violenza, incapaci di guardarsi allo specchio, perché ingiustamente colpevoli della violenza subita. Queste donne, ha detto Buonocore, dovrebbero riprendersi lo specchio nelle mani di Perseo e avere il coraggio di incrociare il loro sguardo per riprendersi l’identità rubata e recuperare il proprio passato, sul quale si può costruire il futuro.
Secondo Buonocore, uno strumento importante che aiuta a ripercorrere ed elaborare il sé è la scrittura autobiografica.
Nei colloqui con persone vittime di tratta, incontriamo spesso donne incapaci di alzare lo sguardo, atteggiamento frutto di un senso di vergogna di cui si sentono responsabili, pur essendo loro le vittime; donne che a volte non hanno la piena consapevolezza di essere vittime; donne che decidono di chiamarsi con un altro nome, per dissociarsi dalla persona che sono e costruirsi un’identità altra. E poi ci sono anche donne che esprimono il desiderio di diventare mediatrici culturali/interpreti per poter garantire una ‘giusta traduzione’ alle loro storie durante i colloqui in commissione per la richiesta di asilo. In questo senso, come ha messo in evidenza Cecilia Pasini di Almaterra, è importante il ruolo svolto dai corsi di lingua italiana per stranieri, che contribuiscono a fornire le conoscenze linguistiche di base a molte donne che saranno in grado di esprimersi autonomamente e raccontare di sé in modo diretto e non riflesso. Ancora una volta, dunque, la centralità della parola, che sia scritta o parlata, per comunicare se stesse.
E non del corpo, diventato sempre più spesso lo strumento attraverso il quale e sul quale si agisce la violenza: dall’aggressività all’assoggettamento sessuale, sono tante le forme di espressione della violenza, soprattutto da parte degli uomini. Da quanto ci ha raccontato Domenico Matarozzo, referente dell’associazione Il Cerchio degli Uomini – che opera a Torino da oltre venti anni aiutando gli uomini ad acquisire consapevolezza di sé e migliorare quindi le relazioni -, negli ultimi anni è diminuita l’età degli uomini che agiscono la violenza, sono sempre più giovani, e ciò chiama ad una riflessione e ad un’analisi stringente sulle conseguenze del modello patriarcale entro il quale le nostre relazioni si muovono.
Prendiamo, per esempio, il linguaggio, quello dei media in particolare, sul quale si riflette poi quello usato dalla società: l’oppressione sessista viene spesso mitigata, la violenza viene ‘narrata’, quasi fosse un romanzo e non la realtà, con il rischio di giustificare qualsiasi azione violenta. È il caso della parola femminicidio, che spesso viene definito come raptus, follia. Il femminicidio non è il frutto di un impulso violento momentaneo, ma la reiterazione di una violenza che culmina con l’omicidio di una donna da parte di un uomo.
Sarebbe ora che i media cominciassero a smascherare la violenza insita nel linguaggio, nella cultura della nostra società, per restituire maggiore consapevolezza agli uomini e alle donne.