Il 24 marzo 2017 si è conclusa a New York, dopo due settimane di lavori intensi aperti il 13 marzo, la Commission on the Status of Women (CSW), ovvero il principale meeting internazionale di stampo politico-istituzionale dedicato all’analisi annuale della condizione delle donne nel mondo.
Giunta alla sua 61esima edizione, la Commissione, supportata come sempre da UN Women, ha come scopo la promozione dei diritti delle donne, la diffusione dell’uguaglianza di genere e il rafforzamento dell’empowerment femminile, attraverso la costruzione e l’attuazione degli standard globali che favoriscono tali condizioni.

La quarta Conferenza mondiale sulle donne, tenutasi a Pechino nel 1995, rafforzò i compiti della Commissione riconoscendole “un ruolo centrale nel controllo dell’applicazione del Programma di azione e nell’orientare al riguardo l’azione del Consiglio. Deve avere un mandato chiaramente definito e disporre di risorse umane e finanziarie sufficienti per applicarlo, grazie al nuovo stanziamento di risorse nel quadro del bilancio ordinario delle N.U” (qui il testo completo tradotto in italiano, comprensivo del Programma di azione).
La Conferenza di Pechino, dopo quelle di Città del Messico, Copenaghen e Nairobi, rappresenta un momento di passaggio dalle politiche della parità alla consapevolezza del necessario riconoscimento e valorizzazione della differenza del genere maschile e femminile.

Ogni anno partecipano al forum i rappresentanti degli Stati che fanno parte delle Nazioni Unite, di organizzazioni della società civile e di organi e agenzie dell’ONU.
Quest’anno il tema prioritario è stato Women’s economic empowerment in the changing world of work: in un momento storico in cui il mondo del lavoro cambia velocemente, il rischio che persista una disuguaglianza socio-economica per le donne è molto alto. Ed è un rischio che riguarda non soltanto le donne che vivono nei cosiddetti Paesi in via di sviluppo (e non è un caso che il tema emergente fosse proprio l’empowerment delle donne indigene), ma anche quelle che vivono nella parte del mondo più tutelata, quella occidentale.

IROKO è stata presente quest’anno tra le organizzazioni ospiti del forum, rappresentata dalla Presidente e attivista Esohe Aghatise.
Dal 2003 nella Commissione e anche come membri della Coalition Against Trafficking in Women (CATW), abbiamo portato nel forum la nostra ventennale esperienza in sostegno alle donne vittime di tratta e di prostituzione; in particolare il nostro contributo è stato intorno alle conoscenze specifiche acquisite negli anni sulla situazione italiana e sull’analisi sia delle condizioni di partenza che conducono molte donne nella tratta, sia della realtà di arrivo, che getta la maggior parte di queste donne nella prostituzione, dandole in pasto agli sfruttatori.
Di questo ci occupiamo fin dagli anni Novanta e abbiamo documentato e denunciato le condizioni di sfruttamento e violenza subite dalle donne all’interno del documentario Viaggio di non ritorno (2002), visibile integralmente qui.
Che cosa è cambiato da allora a oggi?
Ci sono forme di discriminazione e negazione dei diritti delle donne che sono ancora radicate: guardiamo per esempio ai matrimoni delle bambine o allo stupro come strumento di guerra e di oppressione. In questi anni, però, molti Paesi hanno costruito una politica più consapevole a favore dei diritti delle donne, anche per merito della pressione esercitata da alcune ong impegnate sulle questioni di genere.
Al di là del nostro limitato, seppure importante, contesto locale, partecipare alla Commissione ci dà la misura di una visione necessariamente internazionale sulla discriminazione di genere: molti dei problemi toccano trasversalmente diversi Paesi, a prescindere dal grado di emancipazione raggiunto dalla società.
Sebbene alcune realtà sociali abbiano fatto dei grandi passi in avanti, c’è ancora molta resistenza da parte di governi che negano l’esistenza di disuguaglianze di genere: si pensi per esempio all’Arabia Saudita, dove la donna vive una limitazione della sua libertà a tutti i livelli, da quello individuale ad una restrizione politica, sociale ed economica.

Di fronte ad un crescente ma apparente benessere economico, si assiste ad un aumento dei conflitti mondiali, ad una grave crisi economica in Occidente, che sta minando le basi della democrazia e quindi del rispetto dei diritti umani.

Uno dei temi affrontati nei panel a cui abbiamo preso parte riguarda la maternità surrogata. Questione di grande attualità, ancora una volta tocca la volontà della donna.
Praticata in molti Stati, sia in Occidente che nei paesi in via di sviluppo, in Italia non è legale, ma il sostegno ad essa è molto forte da parte dell’opinione pubblica. Si legga, per esempio, questo articolo che non riconosce la maternità surrogata come una forma di sfruttamento, ponendosi a sua difesa con queste parole: “secondo mito da sfatare: la donna che si mette a disposizione di altri «è sempre una donna sfruttata». Lo può essere e di fatto lo è nei paesi in cui il lavoro non ha valore e i salari sono molto bassi. Dove lo sfruttamento è comunque condizione di vita. E anche in questi luoghi, dall’India all’Ucraina, è difficile giudicare se sia peggio lavorare 20 ore al giorno come colf in condizioni disumane o passare nove mesi con in grembo il figlio altrui. Certamente è ingiusto parlare di sfruttamento in alcuni paesi occidentali dove la madre surrogata è ben retribuita e le sue condizioni mediche attentamente monitorate. Dove le condizioni dell’accordo sono dettagliate in un contratto. Condizioni che, se sembrano ingiuste ad alcune, possono risultare perfettamente accettabili ad altre”.

Dal nostro punto di vista la maternità surrogata è una forma di sfruttamento del corpo della donna.
Mettere a disposizione il proprio utero dietro compenso è un altro strumento, al pari della prostituzione, nelle mani del patriarcato, che rende la donna oggetto da comprare attraverso il suo corpo come nel commercio del sesso. Il meccanismo che si ripete è sempre lo stesso: nella gran parte dei casi è la donna più povera che presta, o meglio vende, il suo corpo alla persona in grado di comprare. Uno scambio ineguale sul quale ci chiediamo: dov’è la libertà di scelta?, come afferma anche il documento pubblicato da diverse attiviste per i diritti delle donne #stopsurrogacynow. Il diritto alla maternità surrogata ci obbliga a riconoscere nuovamente l’esistenza di un proletariato sociale, in questo caso basato sul genere, in cui la classe più forte subordina la parte più debole della società al soddisfacimento dei propri voleri; dove la gravidanza diventa un servizio finalizzato ad ottenere un prodotto, il bambino, e non può essere riduttivamente letto come un atto di amore altruistico.
È questo anche il filo conduttore che sta alla base del documentario Breeder’s: a subclass of women?, realizzato dal Center for Bioethics and Culture.
E non è questa una questione morale, come non lo è il contrasto alla decriminalizzazione della prostituzione, idea che sosteniamo da anni e che è stata oggetto di grande dibattito anche all’interno della CSW.

Abbiamo partecipato al panel che ha avuto come ospiti le sopravvissute alla prostituzione di SPACE International, sostenendo l’idea che la libertà economica per le donne passa anche attraverso l’abolizione del sistema prostitutivo.
Parallelamente alla CSW, negli stessi giorni a New York si è tenuto il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, in cui il Ministro svedese alle Pari Opportunità Asa Regnér ha sostenuto il Modello Nordico come unico e migliore approccio politico e sociale per contrastare la prostituzione.

Perchè la prostituzione è sempre una forma di sfruttamento.
È necessario lavorare sulla domanda di servizi sessuali, solo così si può prevenire la tratta per sfruttamento sessuale; bisogna operare politicamente per prevenire i conflitti di guerra e i conseguenti sfollamenti, così come favorire uno sviluppo sostenibile per contrastare la povertà.
La domanda di sesso non è inevitabile, bisogna decostruire la “necessità degli uomini” a comprare sesso, perché appartiene ad un pregiudizio culturale proprio di una società che poggia le sue radici nel patriarcato.

In questo articolo sono elencati i maggiori eventi tenuti da organizzazioni abolizioniste e Stati Membri UN sull’affermazione del modello nordico.
Nato in Svezia nel 1999, il modello nordico è stato preso ad esempio da altri Stati: l’Irlanda, la Scozia, la Francia, la Norvegia, la Finlandia, l’Islanda hanno approvato leggi contro la prostituzione sulla base del modello svedese.
Tre sono i punti prioritari previsti dal modello:
– scoraggiare la domanda di sesso
– non punire la prostituzione
– prevedere ed attuare misure preventive e di sostegno/reinserimento sociale per chi decide di uscire dalla prostituzione.

In Italia la legge Merlin, entrata in vigore nel 1958, prevedeva già la decriminalizzazione della prostituta, ma non affronta il problema delle domanda; inoltre bisogna ancora implementare totalmente le misure di accompagnamento per le donne che desiderano uscire dalla prostituzione. E per questo chiediamo a gran voce un consapevole sforzo politico in questa direzione, affinché si possa anche incidere in maniera decisiva sul traffico di esseri umani, in un momento storico in cui la migrazione, e quindi la tratta – in particolare di donne -, obbliga i Paesi mediterranei dell’Europa ad attivare misure preventive e di controllo anche in questo ambito.

Crediamo infatti, come sostiene anche Simon Häggström, ispettore di polizia svedese, che la prostituzione sia strettamente legata al crimine organizzato.
Ecco perché legalizzare il fenomeno non è proprio la risposta giusta, ma favorisce il rischio di aumento della tratta e della prostituzione minorile.

Fin dalla Conferenza mondiale di Pechino, dunque, questi interventi internazionali come la CSW, intanto diffondono tra le organizzazioni e gli Stati partecipanti il senso comune di lottare insieme per i diritti delle donne, per ribadire che spesso è necessario riaffermare diritti che si pensava conquistati; e dimostrano anche che le donne, a livello mondiale, stanno costruendo un linguaggio universale con il quale affermare che i diritti umani sono tali e sono universali se si riferiscono alla realtà concreta delle donne e degli uomini, se affermano la pari dignità di libertà, di condizione, di partecipazione sociale e politica di donne e di uomini, se tutelano il valore dell’integrità e inviolabilità del corpo femminile.