La legge n. 75 del 1958, che porta il nome della senatrice Lina Merlin, ha compiuto i suoi 61 anni. La legge, come sappiamo, ha abolito le ‘case chiuse’ – 560 al momento dell’approvazione della legge -, vale a dire la regolamentazione della prostituzione da parte dello Stato; ha abolito la schedatura delle donne prostituite, liberandole di uno stigma profondo e ingombrante e offrendo loro un’opportunità di riscatto, affrancandosi dalla prostituzione. In sostanza, è una legge che mira ad evitare il più possibile che qualsiasi donna sia obbligata, indotta o incoraggiata a entrare o permanere nella prostituzione.

Questa legge, pioniera delle più recenti leggi abolizioniste approvate in diversi paesi del mondo, è il nostro punto di partenza sulle riflessioni, culturali e politiche, intorno alla prostituzione.

Eppure, e forse proprio per questo, viene posta ciclicamente sotto attacco, addirittura ne è stata messa in discussione la costituzionalità. Il 5 marzo scorso, infatti, la Consulta costituzionale si è pronunciata in merito alle accuse, infondate, di incostituzionalità mosse dagli avvocati della Corte di Appello di Bari, relativamente ai reati di favoreggiamento e reclutamento della prostituzione sul caso delle ‘escort’ procurate da Tarantini all’allora Presidente del Consiglio Berlusconi. Le accuse sono state respinte dalla Consulta e molto chiara è stata la posizione espressa dall’avvocato dello Stato Gabriella Palmieri, che a nome della Presidenza del Consiglio aveva chiesto l’inammissibilità della questione,  “il profilo fondamentale è quello della dignità della persona”, ha aggiunto, specificando la difficoltà di “individuare il confine labile della volontarietà. Il rischio è che un vuoto normativo produca un vuoto di tutela a danno di soggetti più deboli”.

Due giorni dopo il pronunciamento della Consulta abbiamo ospitato a Torino, in collaborazione con il Dipartimento di Cultura, Politica e Società dell’Università e il CIRSDE e con il supporto di Marcella Gilardoni, Julie Bindel, giornalista inglese, e Rachel Moran, attivista, sopravvissuta alla prostituzione e tra le fondatrici di Space International.

Julie, già in Italia in passato, era in quei giorni nel nostro paese per presentare il suo ultimo libro, “Il mito Pretty Woman. Come la lobby dell’industria del sesso ci spaccia la prostituzione”, la prima indagine globale sulla prostituzione, con dati e testimonianze raccolti in 40 paesi, città e stati fra Europa, Asia, Nordamerica, Australia, Nuova Zelanda e Africa e pubblicato in Italia da VandaEPublishing e Morellini Editore.

Il libro di Julie è un viaggio intorno al sistema economico e politico nato intorno alla prostituzione, che prende il nome di industria sessuale; ricostruisce la storia di due movimenti internazionali, che hanno fatto uscire allo scoperto la differenza tra le due posizioni sulla prostituzione: da una parte, il gruppo COYOTE, fondato nel 1973, di matrice liberista, che riconosceva nella prostituzione l’espressione della libertà sessuale; dall’altra, WHISPER, movimento nato nel 1985 in opposizione a COYOTE, dalla volontà di Evelina Giobbe, sopravvissuta alla prostituzione.

COYOTE si proponeva di ‘abbattere la vecchia morale’ per dare voce alle prostitute: nasceva proprio da qui, spiega Julie, il mito Pretty Woman, la puttana felice, più tardi sex worker: è così che viene normalizzato l’abuso sessuale nella prostituzione, il linguaggio viene trasformato, edulcorato, per giustificare la violenza sessuale che è radicata nella prostituzione. O meglio, lo ‘stupro a pagamento’, come lo definisce Rachel Moran nel suo libro che porta lo stesso titolo.

La prostituzione non è, e non può essere, un lavoro come un altro, non è espressione della libertà e dell’autodeterminazione della donna. A sostegno della prostituzione vengono utilizzate ora il decoro – vedi il ddl Rufa – ora la libertà della donna. Come ha sottolineato durante l’incontro Valentina Pazé, docente di Filosofia politica all’università, “a sostegno di queste rivendicazioni, c’è la tendenza a dare una rappresentazione del mondo in bianco e nero: da un lato vi sarebbero le donne vittime della tratta, costrette a prostituirsi contro la loro volontà, o comunque spinte da condizioni di bisogno estremo; dall’altro le escort o sex worker, soggetti ‘che hanno liberamente scelto di operare lo scambio contrattualistico tra il piacere procurato a terzi mediante la libera cessione della loro sessualità e quello di poter acquisire vantaggi economicamente apprezzabili’. Leggendo il libro di Rachel Moran questa visione in bianco e nero delle prostituzione (vittime da una parte / libere professioniste dall’altra) si sgretola”. È proprio Rachel infatti, ricorda Pazé, a sostenere che “la caratteristica peculiare delle persone libere risiede nell’inviolabilità del loro corpo, mentre il marchio distintivo della prostituta è il fatto che il suo corpo non è inviolabile”.

Il principio della libertà personale, quindi, è strettamente legato a quello dell’inviolabilità del corpo. Secondo quanto ha ribadito più volte nei suoi interventi la psicotraumatologa tedesca Ingeborg Kraus, “permettere a degli sconosciuti di penetrare il proprio corpo significa che alcuni meccanismi naturali devono essere soppressi: la paura, la vergogna, il disgusto, l’alienazione, il disprezzo. Le donne sostituiscono questi sentimenti con: indifferenza, neutralità, una concezione funzionale della penetrazione, una reinterpretazione di questo atto come “lavoro” o “servizio”. Queste donne hanno imparato molto presto come dissociarsi”.

Vari studi evidenziano una correlazione diretta tra l’ingresso in prostituzione e le esperienze di violenza subite dalle donne nell’infanzia. Secondo i dati pubblicati dal Ministero della Famiglia tedesco nel 2004, l’87% delle donne prostituite aveva subito violenza fisica prima dei 16 anni.

Secondo Kraus nessun lavoro espone le persone al medesimo livello di trauma e violenza al pari della prostituzione: disordine da stress post-traumatico, depressione, uso di droghe, somatizzazione, nausee, vomito.“La prostituzione può essere praticata solo in uno stato di dissociazione patologica”, conclude Kraus.

Se dunque la dissociazione è uno stato mentale necessario per la sopravvivenza di chi è in prostituzione, ciò conferma non solo che il corpo è inviolabile ma soprattutto che la prostituzione non è espressione di una libertà.

E infatti dai sostenitori del sex work viene rivendicata piuttosto una libertà economica della sex worker, il cosiddetto diritto della libera iniziativa economica (che, per la verità, come chiarisce Mia Caielli, viene citata dai giudici della Corte d’Appello di Bari a difesa di chi procura clienti alle prostitute, che trarrebbero dunque vantaggio da ciò).

In Germania la prostituzione è regolamentata dal 2002. 3500 è il numero dei bordelli registrati, senza contare quelli illegali, i profitti ammontano a 15 miliardi di euro ogni anno. La domanda di sesso è aumentata, così come lo sfruttamento sessuale ed economico delle donne prostituite, il 95% delle quali proviene dalle regioni più povere dell’Europa dell’Est: Romania, Bulgaria e molte appartenenti alla minoranza Rom. Il 30% di loro è sotto i 21 anni, non parla tedesco e viene sacrificato dalle stesse famiglie per la garanzia di un sostegno economico. La domanda quindi è: è giusto difendere la libera iniziativa economica anche quando entra in contrasto con la dignità umana e rischia di ledere la tutela della parte sociale più vulnerabile?

In un sistema capitalistico che ha fatto di ogni cosa – persino del corpo umano – una merce, il diritto di autodeterminarsi da parte di ciascun individuo viene sempre più spesso utilizzato da chi, in una posizione di forza, dice ‘hai la libertà di decidere, ma entro questi limiti’. Autodeterminazione è la capacità di decidere di un individuo, che presuppone come necessario non l’atto della decisione, ma che l’azione della scelta sia indipendente da qualsiasi vincolo. Diversamente, la differenza che divide la libertà dall’abuso si assottiglia pericolosamente fino quasi ad annullarsi, come sostiene la giurista Silvia Niccolai, che ci ricorda anche che “un’idea di libertà, che mette il profitto a governare la vita materiale e gli immaginari, e l’indifferenza al posto della solidarietà, lungi dal trasformare i rapporti di potere li riporti parecchio indietro”. Legittimare la vendita di sesso, quindi la funzione della escort o sex worker in generale, serve solo a legittimare l’acquisto dell’atto sessuale.

La prostituzione è il frutto di una mentalità patriarcale, che attribuisce potere agli uomini e alimenta la violenza contro le donne; è la domanda di accesso sessuale ai corpi delle donne da parte degli uomini a reggere il mercato mondiale della prostituzione, come sostiene Bindel nel suo libro-inchiesta e come ha sottolineato Rachel Moran nel suo libro ‘Stupro a pagamento’. Ecco perché, seppure molto difficile, è necessario riconoscere la responsabilità degli uomini all’interno di questo sistema di potere che annulla la libertà delle donne, di tutte le donne, anche di quello 0,1% composto dalle cosiddette sex worker, come ha sottolineato Rachel nel suo intervento. La prostituzione è sfruttamento e richiama un immaginario di disprezzo e sottomissione tipico di un maschile, che si evidenzia proprio a partire dal linguaggio. E a questo proposito Julie Bindel esamina accuratamente la trasformazione del linguaggio nella prostituzione, con il fine di inquadrarla nell’ambito di un’attività lavorativa: “il modo più efficace di ripulire qualunque abuso dei diritti umani per mascherarlo è dargli un altro nome. Per esempio, come fa notare Janice Raymond nel suo libro Not a Choice, Not a Job, un sostenitore della schiavitù nelle Indie Occidentali suggeriva: ‘invece di chiamarli SCHIAVI, utilizziamo per i negri il termine ASSISTENTI DI PIANTAGIONE,  e smetteremo di sentire proteste violente contro il commercio degli schiavi’ “.

Questa riflessione ci richiama alla mente la scelta di definire ‘assistenti sessuali’ le donne – per la maggior parte – che si prostituiscono (per scelta? A questo il libro di Bindel dedica un interessante capitolo)  fornendo servizi sessuali a pagamento ai disabili.

La prof. Mia Caielli, direttrice del CIRSDE, intervenuta all’incontro con Bindel e Moran, ha inquadrato i diversi modelli illustrando i principi ispiratori di ciascuno: dalla regolamentazione tedesca alla ‘depenalizzazione’ neozelandese al modello abolizionista svedese fino alla sua più recente evoluzione, espressa nella legge francese, che vieta esplicitamente l’acquisto di atti sessuali. Tra l’altro, anche la legge francese è stata recentemente sottoposta al giudizio sulla sua costituzionalità, che si è chiuso con la decisione da parte del Conseil Constitutionnel, che ha ribadito che l’acquisto di atti sessuali è sottoposto a un divieto assoluto e che l’esercizio della prostituzione non può essere considerato alla stregua di una prestazione lavorativa.

Caielli ha ricordato anche qual è la ratio sulla quale poggia la legge Merlin: “la convinzione, cioè, che il mantenimento di tante donne nelle case chiuse in una condizione di sfruttamento economico, di limitazione della libertà e di mortificazione della dignità personale, con l’assenso e la complicità dello Stato che codifica il doppio dispositivo di controllo, amministrativo-poliziesco e igienico-sanitario, costituisca una contraddizione evidente con lo spirito e la lettera della Costituzione e, in particolare, con l’articolo 3, per il quale Merlin si era tanto battuta”.

In Germania, ha aggiunto Caielli, “poche decine di donne prostituite su migliaia sono registrate: le altre continuano a vivere nell’illegalità e sono vittime della tratta”, nonostante l’intento dichiarato della legge che ha regolamentato la prostituzione fosse quello di tutelare le donne ed evitare forme di sfruttamento.

Un totale fallimento, quello della regolamentazione, riportano Julie Bindel e Rachel Moran.

Le ‘Lettere dalle case chiuse’, raccolte da Lina Merlin e Carla Voltolina e pubblicate nel 1955, sono la testimonianza e la voce delle donne prostituite in Italia, la stessa voce che si leva oggi dalle donne sopravvissute alla prostituzione,  – Rachel Moran ne è un esempio – che hanno strappato il velo di Maya, l’illusione che ha contribuito a diffondere il “mito Pretty Woman”, e si oppongono alla narrazione costruita dalla lobby dell’industria del sesso.

Ecco perché, a nostro parere, è fondamentale sostenere i principi dell’abolizionismo, in primis una legge in linea sul cosiddetto modello nordico, che prima di tutto, ci ha ricordato Bindel, decriminalizzi le donne prostituite, e garantisca poi la criminalizzazione della domanda.

Per approfondimenti sul modello abolizionista, sugli effetti della regolamentazione in Germania e sulla stretta relazione tra tratta e prostituzione:

Lezione di Catherine MacKinnon presso l’Università di Chicago:

https://www.youtube.com/watch?v=zpYegz1OqHA

https://www.trauma-and-prostitution.eu/en/2016/11/05/trauma-as-the-pre-condition-and-consequence-of-prostitution/